Un'esemplificazione a partire dall'episodio dei discepoli di Emmaus. Il fatto narrato dal vangelo di Luca può diventare paradigmatico. L'agire di Gesù offre spunti efficaci a coloro che ‚Äì genitori, insegnanti, formatori ‚Äì hanno un ruolo educativo.
del 09 novembre 2005
 
Da un lato, alla scuola, soprattutto nei suoi indirizzi superiori, viene chiesto di fornire una formazione che addestri i giovani a gestire la complessità del mondo moderno. Da qui l’insistenza sulle nuove tecnologie, sullo studio delle lingue, sull’assunzione di metodologie scientifiche di gestione del sapere.
Dall’altro lato, però, soprattutto le famiglie riversano su di essa aspettative e compiti educativi che in altre stagioni erano sua esclusiva prerogativa.
Come sanno tutti gli operatori del settore, oggi le scuole sono chiamate ad assolvere a molteplici istanze educative: dalla prevenzione all’abuso di sostanze all’educazione sessuale, dalla promozione della legalità all’educazione stradale. Al di là del fatto se sia no giustificata questa ipertrofica domanda di educazione, essa è un dato di fatto e come tale va affrontato. Per questo, oltre ai tanti stimoli e suggestioni che vengono dalle scienze umane, occorre riscoprire anche tutto il potenziale educativo contenuto nelle sacre Scritture. Come sappiamo, gratia non destruit sed perficit naturam quindi ciò che è utile alla salvezza può anche essere utilizzato per illuminare l’educazione.
 
L’incontro di Emmaus
Vediamo, come esempio, le valenze educative contenute in un brano molto conosciuto del Vangelo di Luca: l’incontro di Gesù con i due discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35). Prendiamo alcuni snodi significati del testo per vederne simbolicamente le applicazioni al mondo dell’educazione.
Innanzitutto, i due discepoli di cui qui si parla possono essere visti come esemplificativi della situazione in cui si trovano certamente molti dei giovani che siedono nei nostri banchi (chi scrive insegna italiano in un istituto superiore). Sono giovani-discepoli in fuga da Gerusalemme, in fuga dal luogo dove si è giocata la partita decisiva della loro vita, che loro non riescono però a riconoscere come tale.
Dentro a questa fuga possiamo vedervi tutta la fatica di trasmettere il patrimonio di valori culturali, morali e religiosi che abbiamo ricevuto in eredità dai nostri predecessori e che è compito degli educatori trasmettere alle nuove generazioni.
Di fronte a questa fuga, la tentazione più ricorrente dell’educatore è la lamentela, il rimpianto dei bei tempi andati, la critica sdegnata della crisi dei tempi presenti, e la rabbia che tutto questo genera.
Anche Gesù risorto si è trovato ad affrontare un problema simile, e cosa ha fatto? Si è messo in cammino con loro ed è andato a cercarli sui sentieri delle loro fughe. Sembra facile, ma non lo è. Andare a trovare le persone là dove effettivamente si trovano, implica infatti un scendere al loro livello, livello che spesso non è facile da accettare per l’educatore. Pensiamo, ad esempio, ai giudizi, pur giusti e pieni di vere motivazioni, che spesso vengono dati nei confronti dei programmi o delle letture che gli studenti seguono per conto loro, reality show, romanzi di dubbio gusto o di scarsa tenuta letteraria e simili.
Gesù ha un modo di accostarsi a questi discepoli in fuga molto delicato, che fa percepire loro la sua disponibilità al confronto e all’ascolto, tant’è che questi accettano di condividere con lui un tratto del loro cammino. Questo gesto non è privo di conseguenze.
La prima consiste nell’accettare di passare per l’ultimo arrivato, per il più sprovveduto degli sciocchi: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?».
La seconda consiste nell’accettare la faticosa via del dialogo. Il brano ci presenta con una certa ironia il dialogo tra Gesù a questi discepoli: lui è il Signore della vita, il Vivente e deve accettare per farsi riconoscere di dialogare con questi due che lo considerano il più sprovveduto tra gli uomini.
Gesù però non aggredisce di petto la loro situazione, come forse saremmo tentati di fare noi, ma con pazienza si concentra solo sulle domande giuste da porre loro. È un’arte molto difficile, perché l’ansia di dare le risposte giuste subito è molto forte, eppure questa è l’unica strada percorribile, considerando anche un altro elemento che il testo di Luca ci fa vedere.
I due discepoli non riescono a riconoscere Gesù, perché il loro cuore è triste. C’è in loro una tristezza che ha radici complesse, che fa un tutt’uno con l’esperienza di delusione e di tradimento che loro pensano di aver subìto da Gesù. Così è per i giovani che “istintivamente” rifiutano tutto ciò che viene da coloro che li hanno preceduti, percepiti come fonte di delusione e di inadeguatezza. Dentro a questa situazione non c’è solo la fisiologica ribellione adolescenziale funzionale alla crescita e al rafforzamento della loro identità, ma anche vere e proprie esperienze di delusione nei confronti della società degli adulti, che non offre molte occasioni di speranza.
Tutto questo genera, al di là della superficie, uno stato di vera e profonda tristezza, che rischia di imbrigliare la loro vita nella spirale della sfiducia o li spinge a cercare nuovi e fatui messia. Proprio come per i due del nostro brano che, non a caso si stanno recando a Emmaus, dove nel loro immaginario (1Mac 4,1-26) si era manifestato il vero volto di dio: il volto del dio battagliero che fa vincere con le stesse armi dei nemici.
 
Primo, l’accoglienza
Davanti ad un cuore ferito dalla delusione la tendenza che occorre combattere è quella di dare consigli non richiesti o offrire soluzioni che giungono nel momento meno opportuno per essere accolte. Per questo Gesù ha pazienza e continua il suo dialogo.
Si potrebbe dire che tutta la prima parte dell’itinerario che Gesù compie è all’insegna dell’accoglienza. Un’accoglienza che riesce a mettere l’altro nella condizione di manifestare ciò che prova, cosa difficile quando sono in gioco sentimenti problematici come la tristezza.
Una volta dissodato il terreno in questo modo, Gesù comincia una seconda fase: il racconto analitico delle motivazioni che lo hanno condotto alla croce come conseguenza lineare di tutto il modo di rivelarsi di Dio. Ciò, in termini educativi, non corrisponde alla semplice illustrazione dei valori che si intende trasmettere, ma nella capacità di penetrare e quindi di raccontare il filo rosso che collega la tradizione che si intende trasmettere. Anche questa operazione non è per nulla scontata, perché anche i valori, che sono in sé perenni, si incarnano in forme che mutano e si adattano ai tempi, proprio perché si rivolgono a uomini in continua evoluzione.
Questo è vero per la rivelazione e lo è anche per l’educazione. Occorre quindi che l’educatore sia in grado di scoprire prima di tutto in sé, applicandoli alla sua vita, quali sono gli aspetti dei valori che intende comunicare e che lui sperimenta ancora validi. Solo allora sarà in grado di proporre forme adeguate per la loro applicazione.
Ciò che i due discepoli percepiscono nelle parole di Gesù, che pure non è stato tenero con loro una volta che questi lo hanno accolto senza riserve, è un fuoco divorante: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino?». Tale effetto, atteso da ogni educatore, non è frutto di chissà quali tecniche retoriche ma della capacità di parlare in modo significativo, ovvero in modalità capaci di offrire interpretazioni sensate della propria e della altrui esperienza. Solo il cortocircuito tra la propria esperienza e quella della propria tradizione culturale di riferimento rende questa ancora interessante e degna di essere appresa e (perché no?) anche entusiasmante.
 
Saper prendere le distanze
Il procedere del brano ci fa vedere altri aspetti interessanti dell’atteggiamento con cui Gesù educa i due discepoli. Ad un certo punto viene il momento della scelta: i due discepoli sono ad un bivio, è sera e devono decidere se invitare o meno a casa loro il pellegrino che li ha accompagnati fino a quel punto. Gesù non vuole forzare la mano, nemmeno a fin di bene, e «fece come se dovesse andare più lontano».
Anche qui si cela una tentazione molto forte per l’educatore: nel momento in cui ha agganciato il proprio destinatario è stato capace di accoglierlo, di ascoltarlo, di fargli le domande giuste, di fargli un significativo racconto dei valori che intende trasmettere, può essere tentato di fare lui la scelta al posto dell’altro. Per questo occorre, in questa fase del dialogo educativo, saper prendere le distanze anche dal proprio modo positivo e corretto di porsi, sapersi mettere in ombra affinché l’altro possa decidere in tutta libertà se accogliere o meno la proposta educativa. Alle volte infatti si può peccare anche per una sorta di “eccesso di efficacia”, che vuole costringere l’altro con una proposta in cui di fatto non c’è posto per la sua libera scelta.
È chiaro che in questa fase si rischia molto, perché tutto quanto si è fatto fino a questo momento viene riposto nella mani dell’altro perché decida se farlo vivere o morire. Gesù però, che conosce bene le dinamiche del cuore umano, invita a correre questo rischio perché la posta in gioco, la libertà dell'altro, è troppo alta e va difesa ad ogni costo.
I due accolgono finalmente nella loro casa Gesù e questi entra per rimanere con loro. Però, nel momento in cui giunge l’atteso riconoscimento, allo spezzare del pane, lui sparisce dalla loro vista.
Anche per l’educatore avviene qualcosa di simile. È possibile, infatti, oltre che auspicabile, essere riconosciuti come portatori di un messaggio importante e significativo per la vita degli altri però, nel momento in cui questo avviene, il riconosciuto si rende di nuovo invisibile, come a dire che non esistono formule immutabili e precostituite che esonerino dalla continua ricerca di altre forme e modalità di comunicazione.
L’efficacia del processo educativo si vede, infine, dai frutti: i discepoli in fuga sono diventati a loro volta annunciatori, così i destinatari dell’educazione sono veramente raggiunti solo nel momento in cui scoprono con gioia che loro stessi sono ora divenuti educatori, capaci di correre entro le notti della cultura per portare a tutti un messaggio di speranza e di novità.
La sapienza contenuta nella Scrittura può illuminare tutti i settori dell’esistenza umana. Uno degli ambiti che più necessita di questa inculturazione è sicuramente l’educazione, in particolare quella particolare forma di educazione che si gioca all’interno della scuola. Nella nostra epoca, infatti, assistiamo ad un duplice movimento di pressione nei confronti della scuola, intesa da un sempre maggiore numero di persone come l’unica agenzia educativa che ancora resista all’assalto della s/formazione televisiva.Marco Tibaldi
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