Sono le 4 del pomeriggio di un caldo giorno d'estate del 1944; entrando nella chiesa dell'oratorio salesiano di Schio, Luigi Bolla sente la voce del Signore che gli dice: “Camminerai molto nella selva e porterai la mia parola ai popoli della foresta”.
del 11 febbraio 2018
Sono le 4 del pomeriggio di un caldo giorno d’estate del 1944; entrando nella chiesa dell’oratorio salesiano di Schio, Luigi Bolla sente la voce del Signore che gli dice: “Camminerai molto nella selva e porterai la mia parola ai popoli della foresta”.
Un giorno il Padre Luigi Bolla ricordava: ”Quando la nave salpò da Genova vissi uno dei momenti più belli della mia vita, perché mentre sentivo che la nave si allontana dal porto con una lentezza immensa, sembrava che tutto morisse: le tue amicizie, la tua terra, i tuoi monti, la tua gente. Ricordo – e credo sia un pensiero di tutti i missionari – che dissi al Signore: ho lasciato tutto, adesso mi rimani solo tu, perché del mondo nuovo non conosco niente. E’ il momento in cui il Signore ti dice: “IO SONO TUTTO E SOLO PER TE”, è un momento di allegria infinita”.
In questo mese di Febbraio vogliamo presentarvi la figura di Padre Luigi Bolla Sartori, missionario salesiano, figlio delle viscere della Amazzonia, difensore e messaggero del Vangelo per le popolazioni indigene, morto a Lima il 6 di Febbraio 2013. Egli ha consumato la sua vita assieme al popolo Achuar che ha tanto amato diventando uno di loro per portarli a Dio.
Fin da quando era ragazzo sognava di poter vivere in mezzo alla gente della selva; quel desiderio si è poi avverato e per 60 anni è stato missionario tra gli indios dell’Amazzonia. Padre Luigi Bolla Sartori, salesiano di Schio, non ha mai voluto fondare una missione tradizionale, ma ha scelto di vivere come la sua gente, annunciando il Vangelo nella sua interezza, ma con molta semplicità in modo da consentire a tutti di comprendere il messaggio di Cristo; un modo di evangelizzare che si base soprattutto sul rispetto delle culture locali e che valorizza il più possibile le tradizioni degli indigeni.
E per essere più credibile il missionario vicentino non si è fatto chiamare “padre”, ma ha preso un nome dal vocabolario locale: “Yankuam”, ossia “la stella luminosa del mattino”. “Luis” Bolla aveva un carica, una intraprendenza ed un coraggio incredibili; solo così si spiega come un uomo esile e minuto sia riuscito a superare le innumerevoli difficoltà e le tante insidie che quotidianamente gli si sono presentate in quegli immensi e remoti territori che corrono lungo la frontiera tra Perù ed Ecuador, dove compie la sua preziosa opera da oltre mezzo secolo.
“La chiamata missionaria” – si confessa candidamente – “mi fa sentire nello spirito di essere ancora un ragazzo”. Sono le 4 del pomeriggio di un caldo giorno d’estate del 1944; entrando nella chiesa dell’oratorio salesiano di Schio, Luigi Bolla sente la voce del Signore che gli dice: “Camminerai molto nella selva e porterai la mia parola ai popoli della foresta”.
Il ragazzo, appena dodicenne, non sa nemmeno dove si trovi questa selva e neppure conosce i popoli che abitano nella foresta, ma non si perde d’animo; per capirne di più pèrende una carta geografica e poi chiama i suoi amici e li invita ad allenarsi con lui sui sentieri delle montagne che circondano la città perché da grande farà il missionario e dovrà camminare molto.
Terminata la guerra, Luigi inizia gli studi nel collegio salesiano di Mogliano Veneto, dove frequenta il ginnasio; dopo il noviziato ed un corso di filosofia inizia il tirocinio a Venezia. Nel 1953 parte per l’Ecuador dove completa il terzo anno di tirocinio; comincia a studiare la lingua degli Shuar, prima a Macas e poi a Taish, poco lontano dalla frontiera con il Perù.
“Con il passare degli anni – spiega padre Bolla – ho sentito la necessità di un cambio nel metodo con la gente delle missioni e, come indicato dal Concilio Vaticano II, di aprirmi alle culture indigeni imparando da loro e rispettandole affinché Gesù potesse assumerne un volto indio nei volti dei membri della Chiesa, come più tardi dirà Giovanni Paolo II durante il suo viaggio in Canada”.
Nel 1971, dopo un anno trascorso a Roma, il missionario vicentino si trasferisce a Wichimi tra gli Achuar, popolo indio che conserva ancora intatti i costumi e le usanze proprie e diventa uno di loro. Si alza alle 4 del mattino, parteciap alle battute di caccia e di pesca e per procurarsi il cibo lavora nei campi; dorme in una capanna su un tralizzio di bambù, si ciba di “camote” (una sorta di patata), cane di scimmia, pesce e bene la “chicha”, birra di manioca.
“Poco oa poco ho imparato ad usare le abitudini degli Achuar, bevendo e mangiando come questa popolazione fiera e guerriera, apprendendo prima di tutto la loro lingiua e studiandone poi la filosofia – prosegue Luigi Bolla, che ne 1973 si ammala gravemente di malaria ma riesce a guarire anche grazie alle premurose cure di una infermiera missionaria austriaca – un cammino lento, offrendo ogni giorno la vita e l’evangelizzazione nel dialogo continuo; così o cominciato a conoscere la storia e l’orgoglio di un popolo mai vinto che ha una profonda fede animista e shamanista. Un’esperienza incredibile; senza mai perdere l’identità mi sono spogliato di molte cose legate alla mia cultura e alle mie sicurezza affinché l’unica sicurezza fosse iil messaggio di Gesù. Ho cominciato a celebrare la Messa ornandomi la testa di piume colorate e dipingendomi il viso proprio come fanno gli Achuar, ed ad annunciare il cristianesimo usando il loro linguaggio”.
Nel 1984 Luigi Bolla si trasferisce in Perù tra gli Achuar del sud, unico salesiano in un vicariato affidato ai Passionisti baschi; non è facile vivere in questa zona lontana e priva di strutture di appoggio, ma la felicità di poter vivere con questo popolo condividendo la loro vita e la loro storia lo aiuta a superare le innumerevoli difficoltà che incontra.
“Ero qui quando nel 1990 il movimento degli indio si presentò per la prima volta sulla scena politica per rivendicare i propri diritti; ero ancora qui tra il 1995 ed il 1998 quando Perù ed Ecuador si scontrarono per una guerra di confine ed ero sempre qui quando, nell’ottobre del 1998, i negoziati portarono alla pace ed al tracciato di un nuovo confine tra i due Paesi. Quel tratto segnò una svolta anche per la Chiesa; noi missionari infatti eravamo stati spesso calunniati ed avevamo ricevuto forti pressioni. Personalmente sono stato accusato di essere un comunista ed un guerrigliero, ma la prima preoccupazione è sempre stata quella di annunciare il Vangelo”.
I lunghi viaggi a piedi sono diventati la principale caratteristica di padre Bolla che si è avvalso fin da subito della collaborazione di alcuni animatori di comunità per annunciare il Vangelo alla loro gente: ben presto sono arrivati anche i primi catecumeni ed oggi si contano anche numerosi ministri della parole e dell’eucarestia; attualmente sono 16 le comunità cattoliche sparse nel territorio e quasi 600 gli Indios che hanno ricevuto il battesimo.
“Essere missionari itineranti significa morire ogni volta alla nostra tranquillità ed alla comodità di persone realizzate per iniziare ancora una volta un cammino di sacrificio e dedizione. Spostarmi a piedi mi richiama la senso dell’eterno e dell’infinito, lontano dalle sicurezza del mondo moderno con la sua vita senza riflessione, fatto di nervosismo ed aggressività. Questo viaggiare duro attraverso fiumi, paludi e gole profonde è il pane quotidiano per inzuppare la nostra superbia e farci sentire sempre deboli e poveri”.
Il fatto che Bolla abbia sempre utilizzato la lingua locale ha facilitato l’avvicinamento della gente alla comunità cristiana. Nella liturgia ricorre a riti, simboli ed espressioni linguistiche degli Achuar facendo però attenzione che la chiesa indigena abbia la chiara consapevolezza i far parte della chiesa universale. Da una decina d’anni si sta dedicando alla traduzione del Nuovo Testamento in lingua Achuar ed ha scritto finora 4 libri, che spera di poter pubblicare anche in italiano, tra cui un dizionario di zoologia, botanica ed ittologia particolarmente utile per gli insegnanti o per chi vuole imparare a parlare questa lingua indigena molto ostica, abbastanza simile al giapponese ed al coreano.
Anche lui ha fatto suo il motto secondo cui un missionario non va mai in pensione: “Amo la mia terra e sono molto affezionato alle montagne vicentine; mi sento italiano e non ho mai negato le mie radici venete. Il Signore però mi ha voluto in mezzo alle gente della selva e con il suo aiuto sono deciso a rimanere con loro fino all’ultimo istante della mia vita”.
https://associazionepadresilviobroseghini.wordpress.com/padre-luis-bolla-yankuam/
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