Il catechismo secondo Pinocchio

«Ai piccoli lettori, Pinocchio non diceva tanto come dovessero comportarsi, bensì narrava la storia dell'uomo e presentava il senso dell'esistenza. Ed era in fondo la storia che ci è insegnata dalla Rivelazione cristiana».

Il catechismo secondo Pinocchio

 

Quest’anno ricorre un importante anniversario, dall’alto valore simbolico per la biografia del cardinale Giacomo Biffi: i 130 anni (era il febbraio del 1883) dalla prima edizione de Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, alias Carlo Lorenzini. Un anniversario che tocca nel profondo le corde più intime della sua memoria di «pinocchiologo», come ama definirsi il cardinale. Lo spunto di questi 130 anni (1883-2013) rappresenta l’occasione per l’arcivescovo emerito di Bologna (che da poco, il 13 giugno scorso, ha compiuto 85 anni) di riprendere in mano e di rileggere il suo saggio, pubblicato dal 1977 dalla Jaca Book e ristampato ininterrottamente in varie edizioni fino ad oggi, Contro Maestro Ciliegia. L’ammirazione per Le avventure di Pinocchio è nata in Biffi nel 1935 e non si è mai sopita, tanto che il cardinale è sempre tornato a parlarne e discuterne in dibattiti pubblici, molto dei quali dedicati al nostro Risorgimento, negli anni del suo lungo ministero di arcivescovo di Bologna (1984-2003) e non solo. «Del mio primo incontro con il libro di Pinocchio conosco con esattezza la data: 7 dicembre 1935. Me lo comprò mio padre alla fiera di Sant’Ambrogio, quando avevo sette anni – rammenta dalla sua abitazione sulle colline bolognesi il porporato di origini milanesi –. Ricordo che era un’edizione economica. Fu così che il fatale burattino entrò nella mia vita, e vi rimase». Una passione maturata negli anni successivi, tanto da rileggere il testo di Collodi come un vero «capolavoro teologico e di introspezione» già tra i banchi di scuola: «Una prima illuminazione la ebbi in terza liceo dalla lettura di un saggio di Piero Bargellini: Pinocchio ovvero la parabola del figliol prodigo. Poi vennero gli studi di teologia. La mia tesi di dottorato su "Colpa e libertà nella condizione umana" fu tutta debitrice al libro di Collodi. Solo che dovetti scriverla in un linguaggio accademico, col risultato che fu apprezzata da tutti e letta da nessuno…».

 

Come nacque, sul finire degli anni Settanta, l’idea di un libro proprio su Pinocchio?

«Rammento che ne parlai con il cardinale Giovanni Colombo, di cui in quegli anni ero vescovo ausiliare a Milano, e la sua risposta alle mie esitazioni: "Dipende da quello che scriverà". Tutto ciò mi spinse a compiere l’impresa di un commento teologico. L’idea mi solleticava da tempo. E infatti in quel racconto riscontrai da subito non solo il carattere giocoso di intrattenimento e pura evasione: conteneva un messaggio che svelava il mistero centrale dell’universo. Ai piccoli lettori non diceva tanto come dovessero comportarsi, bensì narrava la storia dell’uomo e presentava il senso dell’esistenza. Ed era in fondo la storia che ci è insegnata dalla Rivelazione cristiana. Il successo di Pinocchio è ancora, a 130 anni dalla sua pubblicazione, un enigma straordinario. Nacque per caso, scritto di malavoglia da Collodi per un giornale di bambini, a puntate irregolari e interrotto due volte, la prima con la convinzione di concluderlo per sempre. E invece è l’unico libro uscito in Italia dopo l’Unità che abbia avuto un successo mondiale. La spiegazione è una sola. Contiene un messaggio eterno, che tocca le fibre del cuore di tutti gli uomini di ogni tempo e cultura».

 

 

Un libro, eminenza, che insomma suggerirebbe di leggere anche ai ragazzi di oggi presi da ben altre distrazioni: videogiochi, internet…

«Certamente, anche perché si tratta di un magnifico catechismo adatto ai bambini come agli adulti. Pinocchio è la verità cattolica che erompe travestita da fiaba. E soprattutto facciamo bene a darlo in mano ai ragazzini, in una società come la nostra così distratta, affascinata dalla civiltà dell’immagine e catturata più dalle cose superficiali che da quelle sostanziali. In quelle pagine vi è in fondo, a mio giudizio, la sintesi dell’avventura umana. Comincia con un artigiano che costruisce un burattino di legno chiamandolo subito, sorprendentemente, figlio. E finisce con il burattino che figlio lo diventa per davvero. Ma c’è anche molto di più. C’è, ad esempio, Lucignolo che rappresenta la perdizione: dove il destino dell’uomo non sempre è a lieto fine. C’è la figura di Maestro Ciliegia, vero maestro dell’antifede: un personaggio che non vuole andare al di là di ciò che vede e tocca. Quello che mi ha sempre colpito è l’oggettiva concordanza di struttura tra la fiaba e l’ortodossia cattolica».

 

 

Un testo che per buona parte del Risorgimento ha rappresentato una specie di «Bibbia mazziniana» e in cui lei ha invece scovato una profonda e sotterranea «anima cattolica»…

«La tesi del mio saggio è stata quella di uscire da una certa retorica risorgimentale e sfatare qualche luogo comune. Già nel 1860 Collodi appare deluso dagli esiti dell’avventura unitaria (alla quale aveva dato il suo apporto partecipando alle due prime guerre di indipendenza). Successivamente, a poco a poco, dimostra di non aver più fiducia negli uomini che contano; pare addirittura essersi convinto che gli adulti sono "irredimibili" e perciò decide di rivolgersi nei suoi scritti soltanto ai ragazzi. Chi sono i suoi lettori? Sono i ragazzi del 1881, l’anno in cui Collodi scrive Pinocchio; non sono né sabaudi né repubblicani né anticlericali né clericali: nessuna ideologia li aveva ancora raggiunti. Ma non sono dei barattoli vuoti. Sono i ragazzi del catechismo, delle prediche del parroco, delle preghiere delle mamme, dei dipinti delle chiese. Non conoscono le ideologie, conoscono la verità cattolica. L’autore vuole così entrare in comunione di spirito con loro. Collodi ha voluto dunque scrivere una storia che, per parlare alla mente e al cuore dei piccoli, li andasse a trovare dove di fatto stavano, nel loro mondo spirituale con le loro persuasioni».

 

 

Una figura chiave della fiaba è la Fata turchina. Cosa rappresenta nella  vicenda di Pinocchio questo personaggio?

«Ne Le avventure di Pinocchio compare con la Fata turchina l’idea della redenzione e il "principio femminile della salvezza"; in lei vi è la salvezza donata dall’alto: e quindi Cristo, la Chiesa, la Madonna. Lo straordinario personaggio della Fata dai capelli turchini è posto appunto a indicare l’esistenza di questa salvezza che è donata dall’alto e può guidare al lieto fine la tragedia della creatura ribelle. Il protagonista raggiunge così il suo riscatto, e in tal modo scampa alla sorte di Lucignolo che non si è ravveduto; tutto si conclude con il ritorno al padre».

 

 

Un libro che ci aiuta anche a riflettere sul mistero del male e sul tema della libertà. Quale è la sua considerazione a riguardo?

«Nella favola le forze malefiche sono rappresentate vivacemente nelle figure del Gatto e della Volpe. Ma più di tutti l’Omino, corruttore mellifluo, insonne. Memorabili sono le sue parole: "Tutti la notte dormono, io non dormo mai". E poi c’è il tema della libertà. Basti pensare alla scelta di un burattino legnoso come protagonista della narrazione, anch’essa una cifra: è in fondo il simbolo dell’uomo, che da ogni parte viene condizionato, è schiavo degli oppressori e dei persuasori occulti. E rimane legato a fili invisibili che determinano le sue decisioni e rendono illusoria la sua libertà. Se Pinocchio non resta prigioniero del teatrino di Mangiafuoco è perché a differenza dei suoi fratelli di legno riconosce e proclama di avere un padre. È questo il segreto della vera libertà, che nessun tiranno può portar via».

 

 

Eminenza, si può parlare di un Collodi credente e «cattolico a modo suo»?

«Collodi aveva una sua fede. "Non sono miscredente. Stia tranquilla che ci credo", disse una volta alla madre Angiolina Orzali. A questa figura il Lorenzini rimase sempre legato. Un po’ tutti questi uomini del nostro "laico" Ottocento dovevano vedersela con una madre dalla fede limpida e viva. E poi nella sua formazione cattolica ha sicuramente contato, negli anni giovanili, la frequentazione del seminario di Colle Val d’Elsa e lo studio di retorica e filosofia presso i padri scolopi a Firenze. L’ipotesi più semplice è che proprio nei mesi della stesura finale del libro, magari con l’affettuosa e illuminante assistenza della mamma che in quel tempo gli è sempre stata vicina, il Collodi abbia riscoperto la visione e le certezze della sua prima età. E il successo e la diffusione universale di Pinocchio forse trovano qui la "ragione sufficiente". In questa favola, fantasiosamente immaginata e scritta splendidamente, tutte le genti intuiscono che c’è qualcosa di eterno e di cosmicamente vero». 

 

 

Filippo Rizzi

 

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