Tutto inizia nel 2003. Viene a sapere che nel deserto del Sinai dei beduini che gestiscono il traffico di persone hanno sparato a una madre che tentava di fuggire con il suo bimbo di appena tre anni. Il bimbo muore sul colpo. È troppo. Nessuno fa nulla per questa gente...
Il suo nome significa: sei il riposo, sei la quiete. Un nome, un destino. Da più di dieci anni si dedica a dare la libertà a uomini, donne, bambini caduti nella rete dei trafficanti di esseri umani. Alganesh Fessaha, milanese di origine eritrea, è da più di trent'anni in Italia. AI telefono, ascoltando la sua voce calma, tranquilla, pacifica, mi chiedo se per caso non ho composto il numero sbagliato. Essendomi documentata sulla sua opera, probabilmente mi aspettavo di sentire una qualche tensione nella sua voce. Invece no. La sua vita, da quando ha deciso di impiegarla per una missione rischiosa, è sempre in pericolo. Ma lei non si arrende.
Le faccio notare questo particolare e lei mi racconta che quando da ogni parte del Sinai, della Libia, dal Sudan, dall'Egitto la chiamano, spesso sono telefonate concitate, spaventate: giocoforza per lei rispondere con pacatezza, cercando innanzitutto di infondere calma, come appunto recita il suo nome. E mi spiega la sua missione in due parole: occorre strappare dalle mani dei trafficanti più vite possibili. Tutto inizia nel 2003. Viene a sapere che nel deserto del Sinai dei beduini che gestiscono il traffico di persone hanno sparato a una madre che tentava di fuggire con il suo bimbo di appena tre anni. Il bimbo muore sul colpo. È troppo. Nessuno fa nulla per questa gente. Sono uomini e donne che fuggono dai loro paesi per mille e una ragione, e che incappano in organizzazioni criminali disposte a tutto.
Non c'è nessun organismo che si prende a cuore questi figli e figlie. Neppure i paesi di provenienza sono interessati alla loro sorte. Alganesh decide. Poco, tanto, qualche cosa deve fare. Non può rimanere con le braccia conserte di fronte a questo scempio. Proclami ne ha sentiti tanti Alganesh, ma una vera e propria lotta contro questo infernale traffico non l'ha vista. Ha visto atrocità inenarrabili, quelle sì. Vere e proprie torture inflitte da questi mercanti senza scrupoli. Nel 2000 aveva già fondato Gandhi, una onlus che si prende cura di bambini in Costa d'Avorio. Poi la situazione dei profughi provenienti dal Sudan, dalla Somalia, dall'Eritrea, dall'Etiopia, o dalla Nigeria, ridotti in schiavitù o incarcerati in Libia, fa sì che Alganesh decida di impegnarsi anche su questo fronte.
Iniziano i suoi viaggi verso il Sinai, nelle carceri della Libia o in quelle dell'Egitto. Ci tiene a sottolineare che non ha mai pagato un riscatto, questo non farebbe altro che incrementare il "mercato" dei beduini. Una volta sul luogo cerca in tutti i modi, anche rocamboleschi, di liberare i prigionieri. E corre rischi. «Finora mi è sempre andata bene» sussurra quasi per scaramanzia. Ma i trafficanti, che ormai sanno chi è questa donna che osa contrastarli, le hanno promesso che un giorno o l'altro riusciranno a fermarla. Ma lei conta non il tempo che le rimane, ma quante è riuscita a liberare: 1.500 persone. Ne restano altrettante nelle mani dei trafficanti. E ribadisce: «Fintanto che posso salvare anche solo una vita, vado avanti». E quasi parlando tra sé: «Finché c'è anche una sola in situazione di schiavitù, non posso fermarmi».
Sono tante le associazioni che aiutano Gandhi onlus, anche per pagare il viaggio di coloro che una volta liberati cercano un rifugio: come nel caso degli eritrei che chiedono asilo all'Etiopia dove vi sono quattro grandi campi profughi. Campi che Alganesh visita regolarmente, sostenendo la scuola e la creazione di attività lavorative per gli adulti. Tutto questo richiede energia e passione umanitaria. Una delle consolazioni di Alganesh è che lavorano al suo fianco giovani italiane, eritree ed etiopiche, attiviste dell'associazione Sos Sinai, e altre persone che hanno compreso la sua sfida e la appoggiano: «Sono felice di poter consegnare questa eredità alle nuove generazioni. Con la speranza che tutto questo abbia davvero fine».
Elisa Kidané
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