Il matrimonio e le varie tipologie di convivenza: cosa dire?

Matrimonio e 'convivenza'. Ci sono varie tipologie di convivenza che, se hanno in comune il fatto di essere alternative al matrimonio, si distinguono perché nascono da intenzioni e convinzioni molto diverse. Alcuni spunti per riflettere e interloquire...

Il matrimonio e le varie tipologie di convivenza: cosa dire?

da Teologo Borèl

del 07 ottobre 2005

Il tema è complesso e può essere guardato da tante prospettive che è doveroso distinguere. È necessaria una riflessione che aiuti molti cristiani confusi a chiarirsi le idee perché la proposta cristiana sui legami affettivi possa essere compresa e accolta. Provo a inoltrarmi su questo tema complesso…

 

Ci sono varie tipologie di convivenza che, se hanno in comune il fatto di essere alternative al matrimonio, si distinguono perché nascono da intenzioni e convinzioni molto diverse.

 

1) C’è, anzitutto, la convivenza matrimoniale come scelta forte alternativa al matrimonio tradizionale. Questo modello ha radici lontane, nel clima della contestazione degli anni 60, quando il matrimonio era considerato la prima espressione della società borghese che si voleva contestare. L’uomo rivendica la sua autonomia rispetto alla società con cui sente di avere un legame solo esteriore dentro la logica del dare e avere. L’ambito delle relazioni affettive riguarda il privato e la vita personale di ciascuno e la società deve starne fuori. Ci sono anche aspetti positivi che non vanno dimenticati, come il forte desiderio di protagonismo nell’esperienza affettiva, la voglia di essere creativi e non inseriti in una struttura dove tutto può sembrare già precostituito.

 

Siamo tutti responsabili di una certa crisi di credibilità delle istituzioni. Come poteva il matrimonio rimanere immune e non essere contaminato da questa crisi? Questo modello non riconosce la rilevanza sociale del legame di coppia e il valore dell’istituzione che, se da una parte può sembrare un inciampo, dall’altra protegge e sostiene il legame, gli dà continuità e futuro, lo rende visibile agli altri che sono provocati a prenderne atto e a rispettarlo. Pastoralmente siamo chiamati a educare al senso dei legami sociali per riscoprirli come parte dell’identità di ogni persona. L’insegnamento  sociale della chiesa ha molto da dire su questo tema.

 

2) Ci sono poi le unioni di fatto, relazioni senza legami ufficiali ma solo personali. Al cuore di questo modello troviamo la centralità dell’individuo e la cultura della reversibilità, mobilità e precarietà che caratterizza molti ambiti della vita odierna. L’amore viene celebrato nella propria intimità e affidato alla responsabilità personale di ciascuno. Il patto rimane sempre reversibile quando uno dei due, o entrambi, non stanno più bene in questa relazione o ritengono che non funzioni più. Mentre il primo modello rifiutava ogni “ingerenza” della società, in questo caso le persone bussano alle porte della società per poter godere di alcuni diritti che hanno le coppie sposate. È questo modello che ha dato vita ai patti di solidarietà che, dalla Francia, si stanno allargando a molte altre società occidentali; in questi patti gli impegni e i doveri affettivi riguardano solo le persone, mentre i diritti chiamano in gioco le istituzioni.

 

Questo modello ci chiede di aprire il grande capitolo dell’educazione all’amore. Quale concetto di amore sta a monte di questa scelta? Un amore che si mette in gioco, ma non fino in fondo, perché mantiene sempre aperta una via di fuga più facile rispetto al divorzio; che dice all’altro «ti amo», ma non riesce a dire «mi dono fino in fondo e impegno la mia vita per te e con te». Fa problema anche il rapporto delle persone con la società: si può chiedere tutta una serie di diritti pubblici senza assumersi dei doveri anch’essi pubblici? I doveri sono solo privati e i diritti pubblici?

 

3) Un terzo modello è la convivenza come prova per avere delle garanzie circa la riuscita di un matrimonio che rimane, comunque, la meta. Al centro di questo modello c’è una parola d’ordine: fare esperienza. Ogni teoria dev’essere provata dall’esperimento che diventa garanzia della sua verità. Il sogno rimane quello di una vita per sempre, ma servono garanzie e prove. Sullo sfondo c’è anche l’altra faccia del sogno: la paura del fallimento, il dubbio circa la riuscita della propria scelta. Si va a vivere insieme per provare e, se l’esperimento funziona, allora è vero amore ed è possibile sposarsi.

 

Che dire? Le persone andrebbero accompagnate a riflettere proprio sul termine “esperienza”: si può provare una persona come si prova un lavoro o un paio di scarpe? Si può accettare che una persona debba essere vagliata per vedere se corrisponde alle mie attese o io alle sue? Si può provare la vita di coppia? Certamente si può provare a vivere la quotidianità, la sessualità, la gestione della casa, ma si può provare tutto? Per avere serie garanzie, dovrei poter provare anche ad avere un figlio, provare l’esperienza del dolore, diverse tipologie di crisi, provare l’amore a 40 anni, 50 anni. Amare rimane un rischio, come lo è la vita stessa e ogni scelta. Se Abramo avesse voluto provare tutto e garantirsi da ogni imprevisto, non sarebbe mai partito.

 

Se, in positivo, notiamo la consapevolezza che la vita insieme è una sfida esigente e che bisogna prepararsi bene, problematico è il termine “esperienza” che rischia di illudere le coppie più che aiutarle a verificare e a solidificare il loro legame. Le statistiche dicono che le coppie che convivono non hanno nessun vantaggio rispetto a quelle che vivono un serio fidanzamento: ci sono coppie che convivono, si sposano e dopo pochi mesi si lasciano, a testimonianza che “provare” è diverso dal “vivere” e mettersi in gioco fino in fondo. Va anche detto che quando una coppia non è ben consolidata e affiatata, la convivenza può mettere alla prova al punto da mandare in frantumi un legame che potrebbe invece avere un futuro se accettasse i passi lenti di una necessaria maturazione.

 

 

4) L’ultimo modello è quello più insidioso e problematico. Con unione libera penso a coloro che vogliono stare insieme senza nessun tipo di impegno e di prospettiva. Si va a vivere insieme semplicemente perché è bello, eccitante, perché si desidera essere sempre insieme alla persona che si ama, perché è triste stare insieme una serata o un fine settimana e poi doversi lasciare per tornare a casa. Se si chiede alle persone perché lo fanno, non sanno dare una risposta, dicono semplicemente che è bello, che a loro va bene così, che vogliono gustare il loro amore. Poi, forse, si sposeranno, ma per ora vogliono solo vivere un po’ spensierati senza avere troppe responsabilità. Vivere insieme è un’esperienza bella e nuova, attraente ed eccitante. Molti genitori approvano questa scelta, perché la pensano come una verifica, e così aiutano e sostengono anche economicamente la nuova coppia ma non si rendono conto che nella testa dei loro figli c’è dell’altro.

 

In questo caso c’è solo la paziente arte del dialogo che può accompagnare questi giovani a diventare consapevoli di cosa stanno cercando, del senso profondo di un legame affettivo, del rischio di bruciare le tappe senza costruire nulla.

 

Il contesto sociale e culturale ci chiede un forte impegno educativo. Non possiamo delegare allo stato e alle leggi di decidere che solo il matrimonio è la strada giusta. Le leggi a tutela del matrimonio ci sono; come mai c’è tutto questo dibattito? Se lasciamo alla legge la soluzione del problema, mettiamo delle toppe provvisorie che ci darebbero l’illusione che tutto va bene mentre nella società molto sta cambiando. Che poi, come cittadini cristiani, siamo chiamati a riflettere sull’opportunità e il senso sociale, culturale e politico di quanto successo in Francia con il “pacs”, e in Spagna col matrimonio tra omosessuali, situazioni che potrebbe capitare presto anche da noi, questo è doveroso.

Giampaolo Dianin

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