Nel volume «Collaboratori della verità», per ogni giorno dell'anno è riportato un testo tratto dai diversi scritti dell'allora card. Ratzinger. Una quindicina di essi si riferiscono al Natale e ne definiscono il mistero nei suoi diversi aspetti. A Natale non celebriamo l'idillio della nascita e dell'infanzia, ma un evento «straordinario, umanamente impensabile, e tuttavia sempre atteso, anzi necessario»: Dio è venuto in mezzo a noi, si è fatto uno di noi. Il teologo prima espone, in forma chiara ed essenziale, la portata di tale evento, poi indica l'atteggiamento da assumere dinanzi ad esso. La conclusione è un invito alla fiducia. Il Bambino bussa alla nostra porta perché vuole donarci se stesso e i suoi doni più preziosi: la pace e la gioia.
del 01 dicembre 2005
Collaboratori della verità, pubblicato dalla San Paolo nel 1994, è una sorta di «breviario» nel quale per ogni giorno dell’anno è riportato un testo tratto dai diversi scritti dell’allora card. J. Ratzinger, oggi Benedetto XVI. Tale raccolta «ha aiutato molte persone, offrendo al loro cammino lungo i giorni dell’anno dei punti di riferimento per vivere la propria fede» (p. 9). I testi, per lo più ispirati all’anno liturgico, si caratterizzano per chiarezza e semplicità di esposizione, approfondimento dottrinale, varietà tematiche, apertura pastorale, simpatia per l’uomo, stimoli per un’autentica vita cristiana. Non di rado sorge il desiderio di approfondire gli argomenti; a tale scopo sono indicate le fonti dei testi.
Sul Natale sono riportati circa quindici testi che ne definiscono il mistero, sia pure in termini sintetici ed essenziali, e indicano l’atteggiamento che il cristiano deve assumere dinanzi ad esso.
 
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A Natale non celebriamo l’idillio della nascita e dell’infanzia: realtà, queste, ricche di prospettive e di fascino, ma effimere. Se ci fermassimo ad esse inciamperemmo nella morte e ci verrebbe da chiederci — come ha fatto il mondo pagano — se non sia triste nascere. «Per i terrestri — scrive Teognide, poeta greco del VI secolo a. C. — il non esser nati è la migliore di tutte le cose, né aver mirato i raggi del sole abbagliante e, nati, al più presto varcare le porte dell’Ade e giacere da molta terra coperti». Il funebre ritornello è ricantato da autori di ogni tempo, avulsi dal cristianesimo. Natale rompe questo triste incantesimo. A Natale «è accaduto qualcosa di straordinario, l’umanamente impensabile e tuttavia sempre atteso, anzi necessario: Dio è venuto in mezzo a noi. Egli si è unito così inseparabilmente all’uomo che quest’uomo — che è veramente Dio da Dio, Luce da Luce — è pur sempre anche vero uomo, a tutti gli effetti. Ciò che costituisce il senso del mondo è venuto a noi in una maniera così reale che si può vederlo e toccarlo (cfr 1 Gv 1)». Il teologo aggiunge una importante chiarificazione: «Ciò che Giovanni chiama il “Verbo” in greco significa contemporaneamente anche il senso. Pertanto potremmo tradurre semplicemente: il senso di tutta quanta la realtà, il senso di tutto si è fatto uomo» (p. 538).
La conseguenza di questo evento straordinario è proclamata con chiarezza: «Il Figlio del Dio vivente, nato nella capanna di Betlemme» è una persona che «si rivolge a noi: è una parola, una voce che ci interpella. Colui che è il senso di tutto ci conosce, ci chiama, ci guida. Il senso non è una legge universale, nella quale è assegnata anche a noi una qualche funzione; piuttosto, è qualcosa che viene pensato in relazione a ciascuno, ed è perciò una verità totalmente personale, cioè per la nostra persona» (ivi). Cristo ci invita a rinascere in lui, a vivere in lui per partecipare, con lui, alla vita eterna nella comunione trinitaria.
In tale prospettiva divina, la morte perde il suo mordente e la vita terrena assume il significato di un passaggio all’eternità, nella quale Dio stesso «tergerà ogni lacrima dai nostri occhi; e non ci sarà più la morte né lutto né lamento né affanno» (Ap 21,4).
 
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Dinanzi al Natale si resta perplessi per un’«inquieta domanda»: in quella stalla di Betlemme è veramente nato il Figlio di Dio? «Il sole è grande, magnifico, potente; nessuno può far finta di non vedere il suo corso, la sua marcia trionfale nel cielo e nel ciclo annuale del cosmo. Ma il suo Creatore non dovrebbe essere ancora più potente e abbagliante nella sua venuta? La nascita di Dio, il sorgere del sole della storia, non dovrebbe inondare il volto della terra di un indicibile splendore?» (p. 528 s). Invece la nascita di Gesù avviene nella povertà, nell’abbandono e nell’insignificanza.
«Quanto è misero tutto ciò di cui ci parla il Vangelo! O forse non dovranno essere proprio questa povertà e insignificanza per il mondo il segno con cui il Creatore manifesta la sua presenza? A prima vista, questa sembra un’idea inconcepibile». Inconcepibile per la mente umana, indubbiamente. Ma il credente ha altri criteri di valutazione; ciò che a noi appare di poco conto, agli occhi di Dio può avere un grande valore. «Si dà manifestamente un duplice segno di Dio: in primo luogo il segno della creazione; ma, accanto ad esso, e con sempre maggiore rilevanza, il segno di ciò che è insignificante per il mondo. In esso i veri e supremi valori si presentano esattamente sotto l’insegna dell’umiltà e della piccolezza, del nascondimento, del silenzio. Ciò che è essenzialmente grande nel mondo, ciò da cui dipende il suo destino e la sua storia, è quello che appare piccolo ai nostri occhi. A Betlemme, Dio — che aveva scelto come suo popolo il piccolo e dimenticato popolo d’Israele — ha posto definitivamente il segno della piccolezza come distintivo essenziale della sua presenza in questo mondo» (ivi).
Occorre accostarci alla stalla di Betlemme guidati dalla fede e riconoscere Dio sotto i segni della povertà e dell’abbandono. Con la proclamazione delle beatitudini evangeliche Gesù affermerà la forza salvifica di questi segni.
 
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Per penetrare il mistero della notte santa è necessaria la luce della fede. A tale conclusione il teologo Ratzinger ci fa approdare prendendo lo spunto anche da un dato della tradizione popolare. «Nella grotta di Greccio, la notte di Natale, stavano — secondo quanto disposto da san Francesco — un bue e un asino. Egli aveva infatti detto al nobile messer Giovanni: vorrei vedere il Bambino con i miei occhi corporali, come fu deposto in una mangiatoia e dormire sulla paglia, tra un bue e un asino (1 Cel 30, 84). Da allora in poi, il bue e l’asino hanno il loro posto fisso in ogni presepe. Ma da dove ha propriamente origine tutto ciò?» (p. 531 s).
Approfondendo la questione, il teologo trova che «bue e asino non sono la semplice trovata di una fantasia devota» e cita in merito il brano di Isaia (1,3): «Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone. Israele invece non comprende, il mio popolo non ha senno». Ricordando la fede della Chiesa nell’unità dell’Antico e del Nuovo Testamento, così scrive: «I Padri della Chiesa videro in queste parole un annuncio profetico, che faceva riferimento al nuovo popolo di Dio, la Chiesa formata da giudei e da pagani. Davanti a Dio, tutti gli uomini, giudei e pagani, erano come l’asino e il bue, senza senno e cognizione. Ma il Bimbo nella mangiatoia ha loro aperto gli occhi, così che ora essi riconoscono la voce del loro proprietario, la voce del loro Signore» (p. 532). Le due bestie, che nelle raffigurazioni natalizie medievali presentano fattezze umane, assurgono a simbolo profetico «dietro il quale si cela il mistero della Chiesa — il nostro mistero, di noi che di fronte all’eterno siamo asini e buoi —, asini e buoi ai quali, nella notte santa, si aprono gli occhi così da riconoscere nella greppia il loro Signore».
 
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Il discorso assume toni parenetici: e noi riconosciamo nella stalla il Signore? «Chi non lo riconobbe fu innanzi tutto Erode [...], poi fu “tutta Gerusalemme insieme a lui” (Mt 2,3) [...], furono gli uomini, vestiti di morbide vesti, i raffinati di allora (cfr Mt 11,8) [...], i dotti, gli esperti conoscitori della Bibbia, gli specialisti dell’esegesi [...]. Chi lo riconobbe furono — paragonati a questa gente eccelsa — “asini e buoi”: i pastori, i magi, Maria e Giuseppe. Poteva essere diversamente? Nella stalla in cui egli si trova non ci sono persone raffinate, solo asino e bue stanno di casa» (p. 533).
«E noi?» L’interrogativo è grave; impone una coraggiosa riflessione. Ci sono sentieri, da noi frequentati, sui quali non è possibile incontrare il Signore. «Siamo tanto distanti dalla stalla, perché siamo fin troppo raffinati e intelligenti per essa? Non ci complichiamo anche le cose con dotte disquisizioni sulla Bibbia e con le dimostrazioni di questa o quella tesi storica o filosofica a tal punto da imbrogliarci, da diventare ciechi dinanzi al Bambino e da non percepire nulla al suo riguardo? Non siamo anche noi fin troppo di casa in “Gerusalemme”, nei palazzi del potere, rinchiusi in noi stessi, nella nostra autosufficienza, nella nostra mania di persecuzione, per poter udire di notte la voce degli angeli, per poterci mettere in cammino e prostrarci ad adorare?» (ivi).
 
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Per riconoscere il Signore nella stalla di Betlemme, il teologo ci offre alcuni suggerimenti. Anzitutto chiedere a Dio quella semplicità di cuore che purifica l’anima dall’orgoglio intellettuale e la rende idonea ad accettare il paradosso del Natale. In realtà, «si tratta del paradosso per cui la gloria di Dio non ha voluto manifestarsi nel trionfo di un sovrano, che assoggetta con potenza il mondo, ma nella povertà di un bambino che, ignorato dalla grande società, viene al mondo in una stalla. L’impotenza di un bambino è diventata l’espressione vera dell’onnipotenza di Dio, che non adopera altro potere se non quello della potenza silenziosa della verità e dell’amore» (p. 521 s). Soltanto un’anima semplice, libera da ogni preconcetto, umile, aperta al mistero, è in grado di comprendere che «la bontà salvifica di Dio ha voluto venirci incontro nell’indifesa impotenza di un fanciullo».
Un altro suggerimento riguarda «quella dimensione di silenzio nella quale agisce Dio». L’argomento, ai nostri giorni particolarmente incalzante, esige una chiarificazione. In verità, «si può tacere con le labbra ed essere terribilmente rumorosi dentro». Fare silenzio «significa trovare un nuovo ordine e una nuova disposizione interiori; significa non mirare esclusivamente alle cose che si è capaci di rappresentare e di mostrare; e vuol dire non rivolgere lo sguardo soltanto a ciò che ha valore tra gli uomini e possiede per loro un qualche prezzo. Far silenzio dunque significa sviluppare i sensi interiori, il senso della coscienza, il senso di ciò che è eterno in noi, la capacità di ascoltare Dio» (p. 529). L’argomento si dilata e investe aspetti della civiltà occidentale che incombono sul nostro tempo col pericolo di svuotarlo di anima. Nel romanzo La storia infinita di Michael Ende si legge: «Siamo andati avanti così rapidamente in tutti questi anni che ora dobbiamo sostare un attimo per consentire alle nostre anime di raggiungerci». Il teologo suggerisce alcune piste per riappropriarci dell’anima.
«Si dice dei dinosauri che si siano estinti perché si erano sviluppati in maniera sbagliata: molta corazza e poco cervello, molti muscoli ma poco intelletto. Non ci stiamo per caso sviluppando anche noi in una direzione erronea: molta tecnica, ma poca anima? Una spessa corazza di possibilità materiali, ma un cuore sempre più vuoto? Un più o meno lento spegnersi della capacità di percepire in noi la voce di Dio, di cogliere e di riconoscere il bene, il bello, il vero? Non è assolutamente tempo di una correzione di rotta della nostra “evoluzione”?» (ivi).
Tale correzione di rotta non comporta — si badi — «una stolta rinuncia al lavoro e all’edificazione della società e del mondo»; comporta il recupero del senso religioso della vita. «La calma e il silenzio che la fede esige consistono nell’evitare che l’uomo venga completamente assorbito dai meccanismi della civilizzazione tecnica ed economica e reso strumentale a essi. Dobbiamo di nuovo imparare a riconoscere che tra scienza e superstizione c’è ancora qualcosa d’altro: quel più profondo discernimento morale e religioso che, solo, bandisce la superstizione e rende umano l’uomo, custodendolo sotto la luce di Dio» (p. 530).
 
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Fare silenzio per riconoscere Dio nel Bambino della stalla, ma anche per sentire la sua voce che ci chiama, mentre bussa alla nostra porta. «In realtà, il Bambino bussa alla porta di questo nostro mondo. Il Bambino bussa» (p. 531). Che cosa vuole da noi? Innanzitutto vuole donarci se stesso: «In questa notte santa Dio stesso ha voluto farsi dono per gli uomini, ha consegnato se stesso a noi. Il vero dono natalizio all’umanità, alla storia, a ciascuno di noi è Gesù Cristo stesso» (p. 520). Vuole offrirci anche i suoi doni più preziosi: la pace — cioè «la salvezza, un mondo in cui regnano la fiducia e la fraternità e non esistono paura, né penuria, né perfidia, né menzogna» (p. 536) — e la gioia, cioè il «Vangelo», la Buona Notizia. «La nostra gioia sarà vera solo se non si fonda più sulle cose, che ci possono essere tolte e rovinarsi, ma se getta le radici nella più intima profondità della nostra esistenza, quella profondità che nessuna potenza del mondo può sottrarci» (p. 527).
Bussa alla porta, il Bambino, anche alla «ricerca di rifugio e di protezione», poiché «ha voluto diventare un essere che dipende «da altri», che «chiama aiuto, che come primo gesto protende le mani cercando protezione. Dio è diventato bambino» (p. 530). In lui, oggi, è rappresentata l’infanzia di ogni Paese. «Non c’è solo un ambiente esteriore ostile all’infanzia, bensì già prima è intervenuta un’opzione per la quale al Bambino vengono chiuse per principio le porte di questo mondo, che asserisce di non avere più alcun posto per lui» (p. 531). Dal Bambino la considerazione si sposta sulla vita e sull’uomo. «Il Bambino bussa. Se lo accettassimo, dovremmo rivedere interamente il nostro personale rapporto con la vita. Qui è in gioco qualcosa di molto profondo, cioè come concepiamo, in ultima analisi, l’essere uomini: come uno sconfinato egoismo o come una libertà fiduciosa, che si sa chiamata alla comunione dell’amore e alla libertà della condivisione» (ivi).
Il Natale ci interpella. Sarebbe negarne il significato di fondo se ci accontentassimo di trascorrerlo concedendogli soltanto una pausa di sentimentalismo, di nostalgia dell’infanzia e di vago richiamo alla bontà e alla fraternità. A Natale «Dio si nasconde e aspetta che la creatura si metta a cercarlo, che essa pronunci un nuovo e libero “sì” nei suoi confronti, e che l’evento dell’amore di nuovo si accenda nella creazione. Egli aspetta l’uomo» (p. 535).
 
© La Civiltà Cattolica 2005 IV 425-430   quaderno 3731
La Civiltà Cattolica
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