Tra quei morti anche quei due alpinisti esperti soccorritori...
Già lo sapevamo: non esiste luogo al mondo al riparo dalla crudeltà del caso, dalla violenza insensata e cieca della natura, ma ancora più dall’estrema ingiustizia della morte. Neppure in quelli che con ingenuo cinismo chiamiamo paradisi terrestri, come se davvero esistesse un Eden in Terra. Qui la bellezza serve solo a mascherare l’ultima menzogna. Già lo sapevamo, ma quei 7000 morti (che presto potrebbero diventare anche 10.000) in un Paese di ghiaccio e rocce sperdute tra le nuvole, vengono ancora a ricordarcelo. Con lo strazio dell’ecatombe, ma ancora con le migliaia di sopravvissuti, ma condannati a una pena ancora più crudele: non aver più nulla per riempire il futuro.
E tra quei morti anche i quattro italiani e gli altri 10 che mancano ancora all’appello. Soprattutto quei due alpinisti esperti soccorritori, Renzo e Marco, sorpresi dalla valanga dopo aver lasciato la spedizione per portare medicine a un’anziana donna nepalese. Una deviazione non obbligata né richiesta, un gesto gratuito e di altruismo che oggi risulta ancora più beffardo e crudele. O forse, il solo che in tanta devastazione e morte potrebbe restituire un senso al sacrificio di massa cui il Nepal è stato condannato. Stavolta a toccato al paradiso sul tetto del mondo, com’era capitato ad altri, nel tourn over dello sconquasso imprevedibile: Haiti, lo tsumani dell’Asia, Cina, Turchia, Giappone e da noi il terremoto in Irpinia, Friuli, Abruzzo e poi l’Emilia.
Il Nepal, Kathmandu: la casa degli dei e delle montagne più alte del mondo, nell’immaginario un po’ farlocco da tour operator. Oppure la libertà fricchettona del viaggio psichedelico e allucinato, come appariva nell’iconografia degli anni Sessanta: la fuga delle rock star in India (qualcuno è ancora lì), la meditazione trascendentale, i guru induisti, i ritiri negli ashram dove espandere la coscienza al suono ipnotico del sitar e nel fumo della marijuana, come fanno gli asceti del dio Shiva per "sollevare il velo di Maya" che nasconde l'essenza della realtà. Per assopire i dolori dell’alienazione occidentale nell’impassibilità di Buddha e nella fissità delle tecniche yoga. Kathmandu, Lhasa, Varanasi: paradisi perduti per hippie new age e aspiranti ricercatori di un Io che s’era già perso ancor prima di arrivare. Ma quei due alpinisti, Renzo e Marco sepolti dalla valanga per qualche pillola promessa a una vecchia, non c'entravano niente con quei due mondi, forse neppure al nostro. Paiono frammenti strani, di un’umanità sconosciuta e inedita le cui storie che non appartengono alla nostra cronaca. Sembrano arrivare da un altro pianeta abitato da gente che non siamo noi. Andare fino in Nepal per conquistare un fazzoletto di ghiaccio a 8mila metri, ma prima deviare dal tracciato sicuro per infilarsi in quella trappola di neve e sassi solo per adempiere a una stupida promessa: perché? O anche gli altri due colleghi, esperti nel salvataggio nelle forre e venuti qui a esercitarsi all’estremo. Non l’avessero fatto, i quattro sarebbero ancora tutti vivi. Invece…
Per questo, è anche una realtà stranita e diversa quella che affiora da sotto le macerie del Nepal sbriciolato: immagini e storie che raccontano di una devastazione insensata perché indipendente dalla cattiveria umana, ma insieme cose meravigliose e incredibili. Proprio nel momento in cui nulla pare più esserci se non la disperazione di chi è sopravvissuto alla ferocia del mostro. Ma almeno qui, nel Paese tra i poveri al mondo, ci sono risparmiate le inutili e oscene polemiche sul disastro annunciato: l’unica cosa annunciata è quella della polvere di cui siamo fatti.
Tanto perché sia evidente a tutti chi comanda davvero lassù. Il sacrificio "inutile" di Renzo e Marco potrebbe invece dare un senso a quella fossa comune dove sono state buttate le vite di uomini, donne e bambini. Loro, ma non solo. Le cronache raccontano di fatti commoventi e di straordinaria solidarietà da parte dei soccorritori: succede sempre in queste circostanze, ma è sorprendente vedere che accade anche qui, dall’altra parte del mondo e a seimila metri nel cielo. Non sono marziani venuti dallo spazio quei due alpinisti o le centinai di volontari che si sono messi subito a scavare, a rovistare tra le rovine in cerca di un respiro: sono fatti della nostra stessa carne e del nostro stesso spirito. Ci rappresentano, ci portano con loro sotto la polvere, nelle case sbriciolate e sotto le slavine ai piedi della montagna.
Rischiare la vita per salvarne un’altra è l’azione estrema, eccezionale e limitata, che tuttavia segnala la strada della normalità quotidiana. Vorremmo essere sempre generosi così, come quei due alpinisti, come i volontari di Kathmandu. L’altro siamo noi. Lo capiamo solo quando la vita colpisce duro: è allora che la nostra libertà tiene il confronto con Dio nell’amicizia al prossimo e gareggia contro l’ineluttabilità del male. Il problema della morte è lo stesso di quello della nascita e della vita. È il problema, cioè, se vi sia da qualche parte un Volontario cui aggrapparci, che ci cavi fuori dalle rovine che noi stessi produciamo. Ecco la speranza: sapere che anche noi, come quella vecchina senza nome sulle montagne del Nepal, possiamo contare su qualche Renzo e Marco, pronti a portarci in casa le medicine.
Luigi Santambrogio
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