In questa immensa ondata mediatica che ha accompagnato la morte di Giovanni Paolo II c'è qualche anomalia. Per strada sono stati dimenticati gli interlocutori previlegiati della sua missione: i paesi poveri. Come hanno reagito, come hanno pianto le migliaia di cattolici nelle favelas sudamericane o nelle bidonville africane alla notizia della morte di Wojtyla?
del 05 aprile 2005
 
In questa immensa ondata mediatica che ha accompagnato la morte di Giovanni Paolo II c'è qualche anomalia. Per strada sono stati dimenticati gli interlocutori previlegiati della sua missione: i paesi poveri. Come hanno reagito, come hanno pianto le migliaia di cattolici nelle favelas sudamericane o nelle bidonville africane alla notizia della morte di Wojtyla? Certamente è stato enorme il loro dolore ma non si può dire che i grandi media, così onnivori davanti a questo evento che ha scosso i cuori delle persone in ogni angolo del mondo, vi abbiano prestato attenzione. Abbiamo ascoltato corrispondenze a raffica dalle grandi capitali; giustamente tanta attenzione è stata dedicata al pianto della sua Cracovia; qualche media si è spinto sino in India, più per compiacimento esotico (della serie: il Papa che dialogava anche con le religioni più di moda) che per reale attenzione sociale. Ma nessuno si è spinto sino a quelle periferie del mondo che Giovanni Paolo II aveva tanto nel cuore.
 
Insomma, questa gerarchia di attenzioni è assolutamente asimmetrica rispetto quelle che invece sono state per 26 anni le attenzioni centrali del Papa. Perché Giovanni Paolo II è stato il Papa dei poveri.
Rileggere oggi un'enciclica come la «Sollecitudo rei socialis», scritta per celebrare i vent'anni di un'altra celebre enciclica, la «Populorum progressio» di Paolo VI, mette, in un certo senso, i brividi. Il Papa fa una disamina impietosa della distanza sempre crescente che separa i livelli di vita del mondo ricco da quello povero. Ai tempi dell'enciclica di Paolo VI, scrive Wojtyla, si era creato un certo ottimismo sulla «possibilità di colmare il ritardo economico dei Paesi poveri». Invece è accaduto esattamente il contrario. Nel mondo sono aumentate le «moltitudini umane prive di tutto». E questo, dice il Papa, non è avvenuto certo «per fatalità dipendente dalle condizioni naturali». È avvenuto perché «certe forme di imperialismo moderno» spiegano tante loro decisioni con l'alibi delle leggi economiche. In realtà dietro «si nascondono vere forme di idolatria: del denaro, dell'ideologia, della tecnologia». La condanna del Papa è senza mezze misure: queste scelte, scrive, «portano a 'strutture di peccato'». Nel dettaglio poi passa in rassegna la diseguaglianza nei commerci «che discrimina i prodotti dei Paesi in via di sviluppo»; lo sfruttamento del lavoro, generato da forme spregiudicate di delocalizzazione; il peso del debito estero che affonda le economie dei Paesi poveri.
 
Fa impressione ritrovare le stesse circostanziate accuse nel messaggio dell'ultima giornata per la Pace, reso noto nel dicembre scorso: «Il dramma della povertà è strettamente connesso con quello del debito estero». I paesi poveri restano prigionieri del sistema che regola l'economia mondiale e davanti al quale bisogna avere il coraggio di rompere certe regole: «Ci vuole una mobilitazione morale ed economica». Bisogna «imprimere un nuovo slancio all'aiuto pubblico allo sviluppo». Ci vuole «una nuova fantasia della carità». 
 
Da dove scaturisse questa consapevolezza e questa intelligenza di visione è facile capirlo leggendo tanti altri suoi discorsi: dall'amore per quelle moltitudini – parola dal sapore biblico che torna tanto di frequente nel suo vocabolario – che in ogni angolo del mondo lo attendevano con il cuore aperto alla speranza. Moltitudini costituite di «concrete e irripetibili vite umane, che soffrono sotto il peso intollerabile della miseria». Il Papa parlava come se avesse davanti il volto di ciascuno: li amava uno per uno e non poteva lasciare tranquillo un mondo che continua a infischiarsene del loro destino.
 
 
Giuseppe Frangi
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