Il perdono dopo la paura: In my country di John Boorman (Gran Bretagna, Irlanda,...

Prendendo spunto dal libro Contro of my skull di Antjie Krog, poetessa sudafricana, In my country racconta le vicende dei processi agli afrikaner, i cinque milioni di bianchi nati in Sudafrica, discendenti dagli olandesi e che per quarantacinque anni, fino alla liberazione del Paese dal regime dell'apartheid il 26 aprile 1994, hanno perseguitato i 35 milioni di neri residenti in Sudafrica.

Il perdono dopo la paura: In my country di John Boorman (Gran Bretagna, Irlanda, Sudafrica, 2003)

da Quaderni Cannibali

del 10 ottobre 2004

       Il cinema ha rappresentato, come qualsiasi forma d’arte, le paure collettive della società contemporanea: come negli anni Cinquanta sono stati numerosissimi i film che negli Stati Uniti denunciavano l’arrivo del “pericolo rosso”, nell’ultimo decennio molte pellicole hanno messo in scena eventi naturali catastrofici per raccontare l’angoscia della società odierna di soccombere ai continui disastri ambientali e all’incombenza delle armi di distruzione di massa e del terrorismo internazionale.

Accanto a queste opere, ve ne sono altre che, senza l’adozione di metafore, rappresentano le reali vicende di uomini che hanno dovuto imparare a convivere con la situazione politica del proprio Paese, costretti quindi a sottostare ad un regime di terrore e con la costante paura di non poter sopravvivere. In my country, l’ultima fatica del regista britannico John Boorman (Excalibur, Un tranquillo week-end di paura) appartiene a quest’ultima schiera di film.

 

Prendendo spunto dal libro Contro of my skull di Antjie Krog, poetessa sudafricana, In my country racconta le vicende dei processi agli afrikaner, i cinque milioni di bianchi nati in Sudafrica, discendenti dagli olandesi e  che per quarantacinque anni, fino alla liberazione del Paese dal regime dell’apartheid il 26 aprile 1994, hanno perseguitato i 35 milioni di neri residenti in Sudafrica. Dopo l’abolizione dell’apartheid per merito di Nelson Mandela a dell’arcivescovo Desmond Tutu, venne istituito da questi ultimi la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, per permettere a tutti i bianchi che erano stati riconosciuti colpevoli di crimini contro i neri di ottenere la grazia della giustizia, qualora dimostrassero di aver compiuto torture ed omicidi perché costretti dai propri superiori.

La protagonista del film è Anna Malan (impersonata da Juliette Binoche), una giornalista afrikaans che assiste ai processi che si sono svolti fra il dicembre 1995 e l’estate 1998, durante i quali i neri raccontano le sevizie terribili a cui furono sottoposti i propri familiari, per poi venire uccisi dalla polizia, ovviamente bianca, sudafricana. Insieme ad Anna vi sono numerosi altri giornalisti accorsi da ogni parte del mondo, fra cui Leston Whifield, un afroamericano (interpretato da Samuel L. Jackson) che crede di conoscere bene il razzismo ed accusa apertamente Anna di aver taciuto e quindi sempre giustificato le violenze che venivano inflitte ai neri del suo Paese. In realtà Anna, pur avendo sempre denunciato il regime dell’apartheid, si ritiene davvero colpevole per i motivi di cui lo accusa il suo collega. L’attrice Binoche ha così spiegato il suo personaggio: “Siamo i risultati di ciò che i nostri padri e i loro antenati fecero prima di noi. Non possiamo dire: io non c’ero, non ho fatto nulla: abbiamo il dovere morale di assumerci responsabilità che sono ancora penedenti. (…) Ho compreso le ragioni profonde che mi hanno spinta verso questo film: sono bianca, occidentale , cittadina francese e mi vergogno dei crimini commessi dal mio Paese coloniale. E’ per questo senso di colpa che ho accettato questa sfida.”

 

Questo film analizza profondamente il sentimento che ha percorso la società afrikaner durante i quarantacinque anni di apartheid: la paura del nero, visto come il fautore del disordine politico che imperava nel Paese si è commutata nella lotta per difendere la propria identità minoritaria di bianco anche a costo di sopprimere il nemico di colore. Durante i processi vi sono stati alcuni ex poliziotti che hanno avuto il coraggio di chiedere perdono e hanno denunciato i funzionari che li hanno istigati a torturare e ad uccidere.

Il proprio senso di colpa e la paura di portarselo appresso hanno vinto sulle autorità politiche: se questo potrebbe essere visto come un eccesso di buonismo da parte di chi ha realizzato il film, occorre ricordare che è tutto vero e che la vicenda dei processi si è svolta in quel modo. A dieci anni esatti dall’abolizione delle leggi razziste in Sudafrica, è necessario non dimenticare che alla violenza subita il popolo nero ha voluto rispondere con il perdono, come sosteneva proprio l’attuale Presidente, anch’egli torturato durante la sua prigionia, Nelson Mandela: “Solo dal perdono nasce l’amore”.

Anna Malan, al contrario di Leston, crede fermamente nell’Ubuntu, il principio ispiratore della Commissione, basato sul ruolo etico della collettività: dato che ognuno è legato al suo prossimo e le azioni moralmente riprovevoli finiscono per colpire tutti i propri simili, per raggiungere la pace diventa fondamentale porre criminali pentiti e vittime disposte al perdono gli uni di fronte agli altri.

Secondo l’Ubuntu “una persona è una persona perché esistono gli altri”. Solo un regista maturo poteva affrontare un argomento così spinoso come la risoluzione dell’apartheid in Sudafrica e trasporre i sentimenti che hanno avvolto questa Nazione nel rapporto che intercorre fra Anna e Leston. I due, dopo un’iniziale scontro, si innamorano, ma soprattutto riescono a mettere in discussione il proprio punto di vista riguardo alla condizione dei neri perseguitati. Anna, inoltre, viene a conoscenza della partecipazione del proprio fratello alle torture razziste e riesce a superare il proprio dramma attraverso il perdono, nonostante egli invece scelga di porre fine alla propria esistenza e di confrontarsi con le proprie colpe.

“Quando c’è amore non c’è rimpianto anche se non c’è ritorno”: con questa frase si chiude il film e la storia fra la bianca Anna ed il nero Leston, ma soprattutto essa riesce a ricordarci, senza falsi moralismi, come l’amore sia davvero l’unico strumento in grado di superare anche ciò che sembra perduto per sempre.

 

 

 

Paola Civiero

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