Che cosa dun¬≠que significa educare? Di certo, non che un pez¬≠zo di materia inanimata riceva una forma, come la pietra per mano d'uno scultore. Piuttosto, educare significa che io do a quest'uomo corag¬≠gio verso se stesso. Che gli indico i suoi compiti, ed interpreto il suo cammino - non i miei. Che lo aiuto a conquistare la libertà sua propria.
Parlare di rapporto educativo possiede significato soltanto nell'orizzonte del dato di fatto che quest'uomo, in carne ed ossa, esiste. Il suo esser-ci è fuori dal dominio dell'educazione. Egli entra nella realtà della vita, portando con sé il suo proprio destino; entra, portandosi dietro le sue leggi costitutive, le sue energie, le sue esigenze. Tutto ciò è lì: dato. Non afferriamo che ne era di noi, «prima» che fossimo. Non ci è possibile immaginare che «dietro» di noi stia un momento, nel quale confiniamo con il nulla. Ma è così.
È un mistero il fatto che ad un certo punto abbiamo cominciato ad essere; come questi uomini: proprio noi. Lì ricevemmo in noi la nostra stessa esistenza; possibilità e limiti. E ciò che lì venne alla luce, incominciò a destarsi e a crearsi. Questa è la nostra fortuna, e la nostra zavorra. Tutto quanto si chiama «educazione» significa in fondo permanere in questo mistero, offrendo il nostro servizio, il nostro aiuto, e ponendo rimedio dov'è necessario. Qui, allo stesso modo, l'educazione trova garanzia e sicurezza.
E dobbiamo poter confidare che questo mondo abbia spazio per noi; non ci emargini, ma ci consideri «dei suoi». Abbiamo purtroppo occasione di dubitarne. Constatiamo l'esistenza di poteri e forze non positivi né benevoli verso l'uomo. Forze che, quando va bene, non s'interessano di noi; e, nel caso opposto, ci strumentalizzano e rovinano. Quando ho da educare un uomo, lo guardo attentamente, cerco di comprenderlo; mi chiedo qual è la sua essenza, e se egli è come dovrebbe essere. Dunque, lo sottopongo ad una verifica. E mi prendo la libertà di dire: "Fa' questo! Tralascia quello!" Quand'egli poi non vi corrisponda, allora: «Hai sbagliato», «Hai agito male», gli dico. Tuttavia, chiunque voglia educare avverte una volta o l'altra sorger dentro di sé l'interrogativo: perché mai hai proprio deciso di educare un'altra persona? Di dove prendi il diritto di scrutare, di giudicare, di esigere? E se l'uomo è persona, con la sua dignità e libertà, perché mai voler dire a quest'uomo, come deve realizzarsi? Ma la questione va più a fondo: che cosa dunque significa educare? Di certo, non che un pezzo di materia inanimata riceva una forma, come la pietra per mano d'uno scultore. Piuttosto, educare significa che io do a quest'uomo coraggio verso se stesso. Che gli indico i suoi compiti, ed interpreto il suo cammino - non i miei. Che lo aiuto a conquistare la libertà sua propria. Devo dunque mettere in moto una storia umana, e personale. Con quali mezzi? Sicuramente avvalendomi anche di discorsi, esortazioni, stimolazioni e «metodi» d'ogni genere. Ma ciò non è ancora il fattore originale. La vita viene destata e accesa solo dalla vita. La più potente «forza d'educazione» consiste nel fatto che io stesso in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere. È stato da qualche parte detto che gli educatori sono per lo più uomini che non riescono a vincere se stessi e perciò si proiettano addosso agli altri. Che i giudizi più sicuri e le richieste più esigenti provengano spesso da uomini intimamente perplessi e confusi, è comunque appurato. Sta proprio qui il punto decisivo. E proprio il fatto che io lotti per migliorarmi ciò che dà credibilità alla mia sollecitudine pedagogica per l'altro. Ogni uomo possiede una propria configurazione essenziale, anche l'uomo più comune. Ogni uomo è uscito con un'indelebile impronta dalla mano di Dio. Dobbiamo esserne certi, e diventarne coscienti; poiché noi consistiamo in essa. Tuttavia, non è solo la propria fisionomia ad essere assai significativa per l'uomo. Non c'è nulla di più importante per la sua intima formazione, del fatto che egli incontri un uomo davvero grande, e sperimenti l'influsso della sua figura. Essa s'imprime; opera in lui;feconda; rischiara. E, insieme, chiama ad una lotta. Quella grandezza viene riconosciuta ed accolta; contemporaneamente s'accende la battaglia per la propria consistenza personale. Un tale vivo paragone deve essere profondamente familiare alla vita dell'uomo. Del suo sprigionarsi è responsabile l'incontro, in un qualche momento, con una grande figura d'uomo. L'incontro con quanto si chiama «grandezza naturale»; e con quella soprannaturale, un santo cioè, vale a dire un uomo che non solo è umanamente grande, ma nel quale hanno preso forma anche la ricchezza e la pienezza di Dio. L'uomo deve offrire a tale figura eccezionale la propria dedizione; seguirla; lasciarsi plasmare da lei. In principio, forse copiando; poi in modo più maturo, più profondamente. Quella figura deve entrare nello spirito e nel cuore, ed operare da dentro. Allora, e con amore pieno, si ridesta la difesa contro il predominio dell'estraneo. E, lentamente, nel resistere balza di nuovo allo scoperto la propria essenza: «Per quanto ti voglia bene, pure io non sono te; devo affermare me stesso per quello che sono».
Romano Guardini, Carlo Fedeli
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