Essere operatori di pace significa anche informarsi e conoscere, comprendere e denunciare, farsi carico e intercedere, pregare e lottare... Riportiamo un articolo di Ettore Mo apparso sul Corriere della Sera il 27 ottobre 2002
del 01 gennaio 2002
Colpite a morte sulle sedie del teatro, qualcuna come sprofondata nel sonno con la cintura esplosiva ancora esposta sul grembo, le agghiaccianti immagini delle kamikaze cecene nella tragedia notturna di Mosca hanno fornito al filmato del blitz e dell'orrore la sigla più atroce e inquietante. Ed io, con lo stesso sgomento, mi sono chiesto se quelle ragazze votate al suicidio nel tentativo estremo di strappare l'indipendenza del loro Paese non fossero le figlie (o le sorelle minori) di quelle donne che mi ospitarono in uno scantinato del Palazzo presidenziale di Grozny una notte del gennaio del '95, tre settimane dopo l'occupazione della Cecenia da parte dell'Armata Rossa. Ero arrivato a Grozny da Nazran, capitale del vicino Stato dell'Inguscezia, con l'indomita telecronista Milena Gabanelli, e trascorsi la notte nel bunker del palazzo del presidente ceceno Dudayev, già tutto sventrato dalle artiglierie di Eltsin. Nella cantina dove m'avevano sistemato e dove bivaccavano dozzine di ribelli ceceni in attesa di sgusciar fuori, ad ogni ora, per le operazioni di guerriglia urbana, un gruppo di donne ha continuato ad occuparsi di me, costringendomi a sorbire brodini di manzo ogni mezz'ora e tazze di tè bollente. Di tanto in tanto, una di loro si accucciava in un angolo della cantina e piangeva in silenzio perché il suo 'ragazzo' non era rientrato. Ma c'era anche una donna russa che una sera, esasperata, ha gridato: 'Fermate questo macello. Fatelo per i nostri figli. Sono morti come i vostri. Lasciateceli seppellire'. La guerra per l'indipendenza cecena era appena cominciata e nella città di Grozny (la 'terribile'), già straziata dai bombardamenti, correvano discorsi incendiari: 'Sono trecento anni che combattiamo i russi - diceva uno dei 'capi', Badruddin Aslakhan -, noi resisteremo un anno, due o dieci, anche se nessuno ci darà una mano...'. Per spiegare il 'suicidio' delle donne cecene a Mosca, bisogna ricordare che la Cecenia è un Paese a maggioranza islamico: e se anche devo ammettere che durante le mie (poche e brevi) visite avrei giurato che mai sarebbe stato fagocitato dal fondamentalismo musulmano, ho dovuto constatare che il sentimento religioso si è via via intensificato fondendosi con le aspirazioni nazionalistiche fino a creare una miscela esplosiva. Ma a un certo punto, tutti ci siamo accorti che la bandiera della Cecenia e quella dell'Islam si erano fuse nello stesso vessillo. Il presidente Dzhokhar Dudayev si professava musulmano praticante; e altrettanto faceva il leggendario comandante stratega dell'esercito indipendentista ceceno, Shamil Basaev, che nel suo quartiere generale di Menkety, in Cecenia, mi disse: 'Questa è una guerra santa, una Jihad come quella che tu hai visto in Afghanistan'. E proprio a Menkety, nel maggio del '96, ho incontrato una tosta eroina cecena, che è stata certamente un modello per le kamikaze perite nel teatro di Mosca. È ancora viva e vegeta e ha un nome estremamente lirico e poetico: si chiama Thais, una bella ragazza allora venticinquenne, coi capelli di grano maturo (così avevo scritto) e che metteva soggezione a tutti perché quando si metteva a sparare al bersaglio appeso all'albero faceva immancabilmente centro, trafiggendo il cerchio una, due, tre e quattro volte. Allah o Ackbar, gridavano ad ogni colpo gli adolescenti guerriglieri di Shamil. Sarei pronto a scommettere che entrando nel teatro di Mosca imbottite di esplosivo, le kamikaze cecene si sono ricordate di Samashki, una delle loro belle città distrutte dall'esercito sovietico tra il '94 e il '95, una città che non esiste più. Gli abitanti erano circa 13 mila. Quando la visitai, nell'estate del '96, era quasi deserta. Vi incontrai una donna di 35 anni, Makhmalieva Sekimat, aveva in testa un fazzoletto a pois, gli occhi intensi. Mi raccontò dei soldati russi che passavano per le strade col kalashnikov e 'la siringa in mano che ogni tanto si conficcavano nel braccio e poi stupravano e sparavano e rubavano'. Poi è toccato alle donne rastrellare i cadaveri dalle strade e dalle piazze della città, seppellirli, e 'lavar via il sangue'. Nessuna intenzione o tentativo di giustificare l'assalto assassino e suicida al teatro moscovita: ma è legittimo ricordare episodi di un recente passato in cui è maturata la lotta indipendentista della Cecenia. È la fine di gennaio del '95 quando l'artiglieria dell'esercito sovietico bombarda il minibazar di Cernerecje, alle porte di Grozny, dove la gente stava attingendo acqua. Tra le vittime un bambino di quattro anni, un altro di undici e un ragazzo di diciassette. Trovo donne intirizzite dal freddo, che è glaciale, livide, angosciate. 'Hanno tirato proprio qui, quei maiali' urlano. Le invettive sono contro Eltsin. Lo vogliono morto, ma non deve essere tolto di mezzo con metodi spicci, indolori. Il suggerimento più truce è che venga infilato in un tritacarne e macinato lentamente. Il passato non induce a legittimare atti estremi e disumani, ma aiuta a capire.
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