Il vocabolo è applicato a Dio stesso, senza nessun imbarazzo...
Sono come due registri musicali che vorremmo incrociare in contrappunto: da un lato c’è il tema della famiglia che ci ha accompagnato tutto lo scorso anno, anche sulla scia del Sinodo dei vescovi. D’altro lato, dall’8 dicembre si è avviato l’Anno Santo straordinario della misericordia.
Ebbene, cercheremo – attraverso quel “grande codice” della nostra fede e della cultura occidentale che è la Bibbia – di illustrare queste due realtà intrecciandole tra loro, cioè scoprendo la presenza della misericordia all’interno della famiglia. Possiamo partire dallo stesso vocabolario. Infatti, la parola biblica primaria che nella Bibbia definisce l’atteggiamento misericordioso è desunta dalla matrice stessa della famiglia, cioè la generazione. In ebraico si tratta di una radice verbale, rhm, che dà origine al vocabolo rehem/rahamîm, cioè le “viscere”, il grembo materno, ma anche l’istinto paterno per il figlio.
Il vocabolo è applicato a Dio stesso, senza nessun imbarazzo, come possiamo vedere in due dei tanti possibili passi da citare. «Come un padre prova amore (rhm) per i suoi figli, così il Signore prova amore (rhm) per quelli che lo temono [cioè, credono in lui]» (Salmo 103,13). Oppure: «Si dimentica forse una mamma del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro ti dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Isaia 49,15).
Essere misericordiosi equivale, allora, a essere presi “fin nelle viscere”, con un amore profondo, intimo, spontaneo e assoluto fino a raggiungere il culmine descritto da Gesù nell’ultima cena: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Giovanni 15,13).
È curioso notare che tutte le 114 “sure” (o capitoli) del Corano – tranne la nona, frutto forse di un frazionamento – iniziano con due aggettivi basati sulla stessa radice rhm presente anche in arabo: «Nel nome di Dio misericorde (al-rahman) e misericordioso (al-rahîm)». Questo termine simbolico, tradotto in greco, appare anche nel Nuovo Testamento, ed è il verbo splanchnízesthai. Gesù ha il cuore attanagliato da questo sentimento quando incontra i sofferenti. Come quando s’imbatte nel funerale di un figlio unico di una vedova del villaggio di Nain (Luca 7,13).
L’esperienza si ripropone quando egli vede davanti a sé la folla affamata che lo ha seguito e ascoltato: «Provo commozione (splanchnízomai) per questa folla che mi segue da tre giorni senza mangiare» (Marco 8,3). La stessa emozione Gesù la prova davanti ai due ciechi di Gerico (Matteo 20,34), o con un lebbroso (Marco 1,41).
Questa misericordia “viscerale” deve essere vissuta anche dal cristiano: è necessario imitare il buon Samaritano che ha una reazione di tenerezza nei confronti del ferito abbandonato dai banditi sul ciglio della strada (Luca 10,33). Ma la storia familiare più bella è quella narrata da Gesù nella parabola del “figlio prodigo” ove il verbo splanchnízomai definisce il commuoversi del padre quando vede all’orizzonte il figlio fuggito da casa che torna.
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