Come la musica ha bisogno di pause, così la comunicazione ha bisogno di silenzio. Come si intrecciano i due elementi parola e silenzio?
del 21 luglio 2007
Dalle mie parti c’è un’espressione dialettale significativa per dire che due persone sono fidanzate: «si parlano», o, «il tale parla alla tal’altra». È un modo molto plastico di dire la rilevanza che ha la parola nello stabilire e nel far crescere una relazione. Sarebbe però un errore madornale credere che per vivere in relazione basti «parlare». Aelredo di Rievaulx arriva a dire che non dovrebbe essere scelto come amico «il tipo troppo loquace» (Amicizia spirituale 3,30). In effetti, come la musica ha bisogno di pause e una poesia di spazi bianchi, così la comunicazione si nutre anche di silenzio. Perché, come la troppa luce oscura la visione delle stelle, così l’eccesso di parole può creare un inquinamento verbale che impedisce di dare alle parole stesse il giusto peso. Per questo le regole monastiche, più volte evocate in queste riflessioni come «pedagogia della relazione», riservano uno spazio rilevante al silenzio, che è un negare la parola come condizione preliminare per curare l’ascolto: di Dio, di se stessi, degli altri.
 
 
Fuga dalla realtà o migliore comprensione?
 
La Regola benedettina, che al cap. 6 parla di taciturnitas, vede nel silenzio sostanzialmente due pregi: in negativo è una maniera di evitare parole inutili o cattive, in positivo è una qualità tipica del «discepolo», cui conviene «il tacere e l’ascoltare». Non è molto, sembrerebbe. Anzi, si può essere indotti a pensare che il silenzio cui sono chiamati i monaci sia di fatto la forma esterna che traduce il cardine stesso della scelta monastica, cioè la fuga dal mondo realizzata precisamente con la rottura delle comunicazioni. Se fosse così, che cosa potrebbero dirci tali regole sulla vita di relazione? Credo però che bisognerebbe anzitutto intendersi su che cosa significhi questa «fuga dal mondo», se è davvero una «fuga», e, nel caso, da «quale» mondo. Perché, a ben riflettere, si capisce facilmente che stabilire un rapporto diretto tra parola e contatto con la realtà, così come tra silenzio e distacco dalla realtà, è un’equazione che, messa al vaglio, si dimostra del tutto arbitraria. Anche la parola, infatti, può essere un meccanismo che ci distrae dalla realtà, mentre il silenzio può essere una strada per entrarci meglio e con più consapevolezza.
 
 
Parola e silenzio
 
A parte il disgustoso parlarsi addosso di certi narcisi della politica, della cultura, e dello spettacolo, conosciamo tutti modalità più ordinarie del parlare che sono vere e proprie diversioni dalla realtà: il chiacchiericcio inarrestabile di chi non sa stare zitto un minuto, anche se non ha niente da dire; il pettegolezzo futile ed evasivo che arriva a inventare le cose; il discorso ambiguo; la lingua della propaganda e della pubblicità, e, più micidiale di tutti, la menzogna, il cui scopo è esattamente quello di oscurare le cose. In tutti questi casi la parola, perdendo il suo aggancio con la realtà, ha semplicemente l’effetto di non far nascere, di falsare o, peggio, di bloccare la relazione. Su un altro versante, ma con meccanismo analogo, anche il silenzio può essere una scelta di non comunicazione: la dichiarazione plateale di un rapporto che si è guastato, o il rifiuto previo di instaurarne uno.
Mettiamo così al centro il fatto che la comunicazione, e di riflesso la relazione, si nutre di parola e di silenzio, e insieme che queste sono due forme di «linguaggio» cariche di potenzialità, ma anche marcate da ambiguità, forme non alternative, ma da far entrare in un circolo virtuoso in cui si fecondano reciprocamente. La parola può non dire niente, il silenzio può parlare. Quanto questo conti nella relazione non è materia di prima o dopo. Per «intendere» la voce della parola, così come quella del silenzio, è certo decisiva la qualità della relazione. D’altra parte è anche vero che una sana gestione della parola e del silenzio contribuisce a far crescere una relazione. Il silenzio, dunque, come il luogo dove covare le parole udite e quelle da dire, le parole come espressione di una comunione che affonda le sue radici in quel silenzio che è l’ascolto del cuore dell’altro. Si delinea così un percorso che ricalca né più né meno il comportamento di Dio: «Mentre un profondo silenzio avvolgeva il creato, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente venne dal cielo, discese dal tuo trono regale» (Sap 18,14-15).
Il primo principio è dunque che il silenzio genera la parola. È un’esperienza che ci accompagna fin dall’infanzia: il bambino impara a parlare ascoltando e imitando. Senza quel silenzio che è attenzione all’altro e accoglienza, non nasce la parola, e dunque non nasce né la comunicazione fruttuosa né la relazione vera. Possiamo applicare al silenzio quello che Thomas Merton scrive della solitudine: «Il semplice fatto che viviamo in mezzo agli altri uomini non significa che viviamo in comunione con essi e neppure che comunichiamo con essi. Chi ha meno da comunicare dell’uomo di massa? Molto spesso è il solitario che ha più cose da dire, anche se non si serve di molte parole, ma quello che ha da dire è nuovo, sostanziale, unico. È suo. Anche se dice poco, ha qualcosa da comunicare, qualcosa di personale che può condividere con gli altri. Ha qualcosa di autentico da offrire perché lui stesso è autentico» (Semi di contemplazione, 8).
 
 
Il silenzio a protezione
 
Un secondo principio è che il silenzio protegge la serietà della parola. Conta in una buona relazione capire certi silenzi, così come può essere cruciale rispettarli. Dietro un silenzio può esserci un bisogno di solitudine, un enigma troppo pesante che richiede una pausa di riflessione, e che non è certo guarito da una alluvione di parole che pretenderebbero di spiegare l’inspiegabile. C’è un modo opprimente e asfissiante di essere petulanti e importuni, quando non ci si rende conto che l’altra persona con il suo silenzio chiede attenzione. In effetti, quando il silenzio tra due persone terrorizza è perché la relazione non è ancora matura, e l’assenza di parola è interpretata come rifiuto di comunicazione. E invece esiste perfino un silenzio che è pienezza, che è intensità di rapporto percepito con tale immediatezza che le parole diventano un fastidio. Così come c’è il silenzio dell’affetto consolidato, che traduce a suo modo una sicurezza stabile e quotidiana, dove la comunicazione e l’intesa sono affidate a gesti e sguardi che non richiedono alcuna espressione verbale.
Un terzo principio è che il silenzio guarisce la parola. Il nutrirsi di contemplazione, aiutati da quelle risorse dello spirito che sono l’arte, la musica, la lettura, ci fa più sensibili al potenziale comunicativo delle parole così come alla loro crosta rozza e volgare che va rimossa. Si può guardare insieme in silenzio un quadro o un panorama, e poi magari scambiarsi lampi di sintonia che brillano negli occhi, o anche pochi monosillabi essenziali, che trasmettono molto più di quanto possa fare una lezione cattedratica o una cascata di parole.
 
 
Il silenzio come attesa
 
C’è infine quel silenzio che è discrezione, che è attesa, che è rispetto. Il non manifestare subito ciò che si sente o si pensa può essere una forma delicata di carità. C’è in proposito un passo dell’Amicizia spirituale in cui Aelredo di Rievaulx traduce questo atteggiamento di pazienza con il termine «dissimulazione», inteso da lui non come inganno che nasconde la verità, ma come pausa che trattiene la parola dal produrre guasti. Scrive: «La dissimulazione è una forma di sospensione, per cui la pena o la correzione vengono rimandate, senza con questo approvare interiormente l’errore, ma tenendo conto del luogo, del momento, della persona. Se infatti un tuo amico commette uno sbaglio in pubblico, non è che tu lo debba rimproverare subito e davanti a tutti […] ma aspettare di trovarsi in un luogo privato e familiare per fargli il rimprovero che si merita. Così, quando l’animo è occupato in molte cose, e si trova meno disposto ad ascoltare, oppure per una qualche ragione è emotivamente turbato e piuttosto agitato, è necessario dissimulare, fino a che, placato il tumulto interiore, sia capace di accettare il rimprovero con orecchie più tranquille» (3,112-113).
Domenico Pezzini
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