Quanto più i principi non negoziabili sono vissuti come la coscienza sociale elementare della fede, tanto più diventano il criterio con cui si valutano persone e situazioni, e si affrontano delle questioni sociali secondo l'ottica di una possibilità di confronto, di dialogo, al limite di collaborazione.
«Una fede che non diventa ‘principi non negoziabili’, che non detta una visione della realtà secondo le indicazioni del Papa, non è una fede cattolica». Monsignor Luigi Negri, arcivescovo eletto di Ferrara-Comacchio, diocesi in cui farà il suo ingresso il prossimo 3 marzo, taglia corto su quella selva di distinguo, precisazioni, rivendicazioni che caratterizzano gli interventi dei cattolici impegnati in politica in queste settimane di campagna elettorale. Che peraltro, cattolici e non, ci consegna una realtà politica poco entusiasmante: «Oggi al benessere del popolo, in maniera esplicita, non pensa nessuno», chiosa Negri.
Ma non c’è spazio per recriminazioni o per lo scoraggiamento, solo la consapevolezza che c’è un grande lavoro da fare per educare i cattolici a vivere la propria fede in modo integrale, che abbracci ogni aspetto della realtà, incluso l’ambito socio-politico. E’ ciò che ha fatto nella diocesi di San Marino-Montefeltro, è ciò che farà nell’arcidiocesi di Ferrara-Comacchio: «Non posso non sostenere i cristiani delle mie Chiese – afferma – nel cammino per arrivare ad assumersi una piena responsabilità della vita sociale e politica del paese, così come è obiettivamente imposto da una autentica esperienza di fede. La fede deve arrivare senza soluzione di continuità alla visione organica della vita personale e sociale e ad individuare linee e strumenti perché questa impostazione possa essere giocata nel contesto vivo della società»
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Monsignor Negri, la scorsa settimana anche il cardinale Angelo Bagnasco, aprendo i lavori del Consiglio Permanente della Conferenza episcopale italiana (Cei), ha insistito sui valori fondamentali alla base dell’impegno politico.
Si deve essere molto grati sia al magistero di Benedetto XVI sia alla prolusione del cardinal Bagnasco che hanno riproposto in modo esemplare il punto di partenza e insieme il criterio di affronto delle questioni socio-politiche. Il criterio di affronto è in quelli che il papa Benedetto XVI ha chiamato i princìpi non negoziabili, che costituiscono una sintesi elementare della dottrina sociale della Chiesa che è a disposizione di tutti i cristiani. Anzi, che deve essere in qualche modo la risorsa fondamentale di ogni cristiano che vuol essere cristiano nel mondo. Quindi i valori della persona, della vita, della famiglia, dell’educazione, della cultura, della libertà di coscienza. Valori che anche soltanto la disattesa di uno di questi o la riduzione di uno di questi comporta una minaccia: non innanzitutto alla presenza cristiana, ma una minaccia alla possibilità di una autentica e libera vita sociale. Quindi alla possibilità di una autentica democrazia.
Eppure qualcuno, anche in ambito cattolico, sostiene che i princìpi non negoziabili siano un'ideologia, siano divisivi, una barriera all’incontro, alla possibilità di lavorare con gli altri.
Sciocchezze. Tutto può diventare ideologia se non è una esperienza di vita. Quando io ho cominciato a vivere insieme a don Giussani l’esperienza straordinaria del movimento nella sua prima fase, quella di Gioventù Studentesca (GS), per la fede che vivevamo nelle nostre comunità di ambiente abbiamo sentito immediatamente che quella esperienza di vita diventava difesa della libertà di educazione e di scuola, perché la nostra fede esigeva che la persona potesse educarsi secondo le proprie opzioni di fondo, e che le strutture scolastiche dovessero essere al servizio non di una ideologia più o meno dominante ma dei bisogni reali di educazione dei giovani. Una fede che non diventa principi non negoziabili non è una fede cattolica, una fede che non detta una visione della realtà secondo le scansioni del Papa non è una fede cattolica. La fede cattolica è una fede incarnata e gli ambiti della incarnazione sono gli ambiti della vita normale, come Gesù Cristo è diventato un uomo normale: essendo Figlio di Dio è diventato un uomo normale.
Allora, quanto più i principi non negoziabili sono vissuti come la coscienza sociale elementare della fede, tanto più diventano il criterio con cui si valutano persone e situazioni, e si affrontano delle questioni sociali secondo l’ottica di una possibilità di confronto, di dialogo, al limite di collaborazione. Perché le scelte socio-politiche possano essere il frutto di intese operative che sono tanto più obiettive e positive quanto più sono l’espressione dell’identità. Il Papa al Sinodo dei vescovi, cui ho avuto l’onore di partecipare, ha ripetuto più volte che il dialogo è l’espressione di una identità forte.
Lei parla di identità forte, ma per molti cattolici questo significa chiusura agli altri, scontro culturale.
E’ il contrario: occorre che i cristiani italiani prendano coscienza di essere un’identità forte non nel senso esclusivo, come è una qualsiasi altra identità ideologica, ma nel senso comprensivo: ovvero l’identità cristiana è forte nella misura in cui si pone come tale: allora si apre al confronto, al dialogo, alla collaborazione.
Comunque, una volta definiti i criteri restano tutti i problemi da affrontare. Infatti non si può evitare di entrare ancor più nel merito, ed è compito della Chiesa farlo. Tocca alla comunità cristiana l’individuazione dei nodi problematici. Non le soluzioni, perché queste sono esperienza e responsabilità dei laici - cristiani e non - ma l’individuazione dei fattori, delle sfide che non possono sfuggire.
Quali nodi problematici lei vede nell'attuale situazione italiana?
Ne individuo almeno tre. Il primo riguarda la povertà crescente degli italiani. Non si può negare che oggi il nostro paese viva in un clima di povertà ormai assolutamente evidente, e che per certi aspetti sembra irrisolvibile. E’ una povertà gravissima che la maggior parte del nostro paese sembra impreparato ad affrontare, che esigerà certamente radicali cambiamenti di comportamento di vita. Quindi più che analizzare di chi è stata la colpa degli ultimi di 10-20-30 anni si tratta di rendersi conto che questa povertà è un dato che non può essere evitato in una seria valutazione dei problemi socio-politici del nostro paese. Non può essere quindi che la povertà scompaia meccanicamente per il cambiamento o la razionalizzazione degli strumenti economici o fiscali. Il problema della povertà implica che la vita politica individui nel principio di solidarietà uno dei principi fondamentali. Si deve prendere coscienza che questa povertà ha bisogno di un approfondimento della nostra identità umana e una apertura del cammino di responsabilità morali di sacrificio, che è necessario per uscire da questa crisi. Altrimenti pensiamo che il problema della vita socio-politica sia un problema tecnologico. Ma il Papa nella Caritas in Veritate ci ha insegnato che l’ultima forma di ideologia che si sta reinsinuando è proprio l’assolutizzazione della realtà tecnologica che diventa appunto tecnocrazia e che idenbtifica il bene comune con il realizzarsi di alcuni obiettivi tecnologici. Don Giussani mi ha insegnato 50 anni fa che non esiste bene comune che non preveda o non ospiti il benessere del popolo. Oggi al benessere del popolo non pensa nessuno, in maniera esplicita non pensa nessuno.
Bene, primo nodo è la povertà. E il secondo?
Viviamo in una situazione gravissima dal punto di vista della democrazia. C’è una fragilità enorme di certe istituzioni e una sostanziale onnipotenza di altre, con una permanente tensione che si è espressa anche con una vera e propria lotta fra ordini e poteri dello stato, contraddicendo la Costituzione in maniera esplicita e direi addirittura con una ostentazione. Come esempio basti vedere l’implicazione della magistratura in politica, fino alla presentazione di alcuni magistrati come candidati.
Terzo nodo problematico...
La vita sociale soprattutto negli aspetti legati alla realtà politica, vive una situazione generale di immoralismo, affermato e vissuto come una cosa ovvia. Sembra che sia stupido non approfittare delle situazioni di privilegio economico e di benefici sociali che sono surrettiziamente garantiti dal ruolo istituzionale. E’ stato detto opportunamente da un uomo politico in questi giorni che lo scandalo del Monte dei Paschi di Siena è molto più grave del grande crac della Banca Romana che alla fine del XIX secolo portò l’Italia al rischio della bancarotta. Ma quella vecchia Italietta ebbe un coraggio che l’Italia di oggi non ha: fu mandato a casa il governo, interamente. Il governo non era presieduto da chissà chi, era presieduto da Giovanni Giolitti: dopo un anno di governo se ne tornò a casa e per tornare in politica dovette lasciar passare dieci anni. Qui c’è una immoralità, anzi meglio chiamarlo un immoralismo, perché vuol dire una immoralità affermata e vissuta senza un minimo di problema morale. Questa è l’espressione della debolezza della cultura del nostro paese, e quindi delle classi dirigenti. E’ pur necessario che venga fatto qualcosa perché venga posto come priorità l’impegno culturale, e da questo scaturisca la vocazione e l’impegno politico che, come dice giustamente Benedetto XVI, è una forma eminente di carità. Ma dove sta oggi una classe politica cattolica o laica consapevole che vive la politica come forma elevata non diciamo di carità – che va bene per i cristiani - – ma di impegno, per il bene della vita degli uomini?
Io credo che un cristiano che si prepara a fare il cammino che va dalla fede alle opere non possa non trovarsi di fronte questi problemi, per i quali – alla luce dei principi non negoziabili - deve avere una ipotesi a grandi linee risolutiva. Sarà alla luce dei principi non negoziabili e di queste ipotesi conclusive che sceglierà le formazioni politiche e gli uomini affidabili, per quanto il richiamo agli uomini affidabili suoni abbastanza equivoco e astratto in una competizione elettorale come quella attuale che impedisce al cittadino anche un minimo di scelta dei suoi rappresentanti.
Nelle ultime settimane si è scatenata in diversi paesi europei un’offensiva per il riconoscimento dei matrimoni gay. E anche in settori autorevoli della Chiesa ci sono delle aperture in contrasto con quanto indica il Magistero. Lei cosa ne pensa?
Basta leggere quanto è scritto sulla Nota Dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici in politica, che la Congregazione per la Dottrina della Fede ha pubblicato nel 2002: «Quando l’azione politica viene a confrontarsi con principi morali che non ammettono deroghe, eccezioni o compromesso alcuno, allora l’impegno dei cattolici si fa più evidente e carico di responsabilità. Dinanzi a queste esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili, infatti, i credenti devono sapere che è in gioco l’essenza dell’ordine morale, che riguarda il bene integrale della persona. E’ questo il caso delle leggi civili in materia di aborto e di eutanasia (…) Analogamente devono essere salvaguardate la tutela e la promozione della famiglia, fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso e protetta nella sua unità e stabilità, a fronte delle moderne leggi sul divorzio: ad essa non possono essere giuridicamente equiparate in alcun modo altre forme di convivenza, né queste possono ricevere in quanto tali un riconoscimento legale. Così pure la garanzia della libertà di educazione ai genitori per i propri figli è un diritto inalienabile, riconosciuto tra l’altro nelle Dichiarazioni internazionali dei diritti umani».
Mi sembra non ci sia nulla da aggiungere perché questa è una formulazione definitiva.
Riccardo Cascioli
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