Intervista a Ratzinger: «Non ci sono due Papi. La rinuncia di 8 anni fa? Credo d...

Il messaggio di Benedetto XVI a chi non si rassegna e ai tifosi di Bergoglio che temono la sua ombra. «Fu una decisione sofferta, ma credo di aver fatto bene. La mia coscienza è a posto»

Intervista a Ratzinger: «Non ci sono due Papi. La rinuncia di 8 anni fa? Credo di aver fatto bene»


 

di Massimo Franco, tratto dal corriere.it

 

Il messaggio di Benedetto XVI a chi non si rassegna e ai tifosi di Bergoglio che temono la sua ombra. «Fu una decisione sofferta, ma credo di aver fatto bene. La mia coscienza è a posto»

 

«Non ci sono due Papi. Il Papa è uno solo…». Joseph Ratzinger lo dice con un filo di voce, sforzandosi di scandire bene ogni parola. È seduto su una delle due poltrone di pelle chiara che insieme con un divano arredano il salone al primo piano del monastero di clausura Mater Ecclesiae: il luogo dove si è ritirato, lontano da tutto, nel marzo del 2013. Sul comodino sono appoggiati gli occhiali da lettura, accanto a una statuetta antica di legno che raffigura una Madonna con Bambino. «Questa è la Sala Guardini. Si chiama così perché raccoglie tra l’altro l’opera omnia del teologo italo-tedesco Romano Guardini. È lì, alle vostre spalle», spiega monsignor Georg Gaenswein, suo segretario personale e Prefetto della Casa pontificia, indicando la libreria che fodera le pareti. Il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, porge al Papa emerito una cartellina rossa con dentro due caricature che Emilio Giannelli, vignettista apprezzato da Benedetto, ha disegnato appositamente per lui. Osserva a lungo la prima, e sorride. Poi passa alla seconda, e il sorriso si allarga in una risata. «Giannelli è una persona spiritosa», chiosa con aplomb papale e bavarese. 

 

Fino al 2012, nelle dodici celle di questo edificio, costruito tra il 1992 e il 1994 e occupato in precedenza dalla Gendarmeria e dai giardinieri papali, abitavano le suore di clausura. Ora ospita Benedetto, le quattro «Memores», le donne consacrate di Comunione e liberazione che lo assistono, e monsignor Gaenswein. Compare all’improvviso dopo un tornante nella parte più alta e inaccessibile della Città del Vaticano. È protetto da un cancello elettrico, oltre il quale regna un silenzio irreale. Incontrare Benedetto è raro, soprattutto negli ultimi tempi. E ancora più inusuale è il fatto che accetti di affrontare uno degli argomenti più traumatici per la vita della Chiesa cattolica negli ultimi secoli. La sua precisazione sull’unicità del Papato è scontata per lui ma non per alcuni settori del cattolicesimo conservatore più irriducibile nell’ostilità a Francesco. Per questo, ribadisce che «il Papa è uno solo» battendo debolmente il palmo della mano sul bracciolo: come se volesse dare alle parole la forza di un’affermazione definitiva.

 

È significativo: consegna il messaggio al Corriere proprio alla vigilia del 28 febbraio, lo stesso giorno di otto anni fa in cui divenne effettiva la sua rinuncia al Papato, annunciata l’11 febbraio. A distanza di tanto tempo, il disorientamento, lo stupore, le maldicenze che hanno accompagnato quel gesto epocale ristagnano ancora. E Benedetto sembra volerli esorcizzare. Chiediamo se in questi anni abbia ripensato spesso a quel giorno. Annuisce. «È stata una decisione difficile. Ma l’ho presa in piena coscienza, e credo di avere fatto bene. Alcuni miei amici un po’ “fanatici” sono ancora arrabbiati, non hanno voluto accettare la mia scelta. Penso alle teorie cospirative che l’hanno seguita: chi ha detto che è stato per colpa dello scandalo di Vatileaks, chi di un complotto della lobby gay, chi del caso del teologo conservatore lefebvriano Richard Williamson. Non vogliono credere a una scelta compiuta consapevolmente. Ma la mia coscienza è a posto». 

 

Le frasi escono col contagocce, la voce è un soffio, va e viene. E monsignor Gaenswein in alcuni rari passaggi ripete e «traduce», mentre Benedetto annuisce in segno di approvazione. La mente rimane lucida, rapida come gli occhi, attenti e vivaci. I capelli bianchi sono leggermente lunghi, sotto lo zucchetto papale candido come la veste. Dalle maniche spuntano due polsi magrissimi che sottolineano un’immagine di grande fragilità fisica. Ratzinger porta un orologio al polso sinistro e al destro uno strano aggeggio che sembra un altro orologio ma in realtà è un allarme pronto a scattare se gli accade qualcosa. Quello che lui stesso ha definito nel febbraio del 2018, in una lettera al Corriere, «quest’ultimo periodo della mia vita», scorre tranquillo, nell’eremo tra i tornanti dei Giardini vaticani affiancati da alberi, cascate e altari, da cui si domina Roma. Fino al 2 febbraio, nel salone dove ci riceve c’erano un presepe e un albero di Natale, incorniciati tra la biblioteca, le icone appese alle pareti insieme ad altre immagini sacre: una stanza sobria, non grande, accogliente. 

 

I ritmi sono abitudinari. Ogni giorno si leggono i giornali selezionati in precedenza dagli uffici vaticani. In più gli arrivano in edizione cartacea l’Osservatore romano, il Corriere della Sera e due quotidiani tedeschi. A tavola, con le Memores si discute spesso anche di politica. E adesso il Papa emerito chiede incuriosito di Mario Draghi.«Speriamo che riesca a risolvere la crisi», dice. «È un uomo molto stimato anche in Germania». Accenna a Sergio Mattarella, sebbene ammetta di conoscere il capo dello Stato meno del predecessore, Giorgio Napolitano. «Come sta?», si informa. E il discorso scivola sull’epidemia del Covid 19.

 

Ratzinger si è già vaccinato, ha ricevuto la prima dose e poi gli è stata somministrata la seconda, come a monsignor Gaenswein e a gran parte degli abitanti della Città del Vaticano. Sotto questo aspetto, il piccolo Stato viene osservato con una punta di invidia in Italia e in gran parte dell’Europa, nelle quali i vaccini arrivano a rilento. Il virus fa paura, e Benedetto accenna alla drammatica esperienza vissuta dal presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, guarito dopo una lunga battaglia. «L’ho appena rivisto e mi ha detto che ora sta molto meglio. L’ ho trovato bene». E quando si chiede al Papa emerito della prossima visita di Francesco in Iraq, l’espressione diventa seria, preoccupata. «Credo che sia un viaggio molto importante», osserva. «Purtroppo cade in un momento molto difficile che lo rende anche un viaggio pericoloso: per ragioni di sicurezza e per il Covid. E poi c’è la situazione irachena instabile. Accompagnerò Francesco con la mia preghiera». Alcuni uomini della Gendarmeria vaticana e delle guardie svizzere sono già lì per organizzare tutte le possibili misure di protezione intorno a papa Francesco. Sono presenti da settimane anche agenti dell’intelligence italiana, ma non è chiaro con chi stiano collaborando. Su questo, dal monastero dove vive Ratzinger non arrivano commenti. Viene spontaneo pensare agli Stati uniti, e osservare che ora, con Joe Biden alla Casa Bianca al posto di Donald Trump, i rapporti col Vaticano sono destinati a migliorare. 

 

Su Biden, il secondo presidente cattolico dopo John Fitzgerald Kennedy, Ratzinger esprime qualche riserva sul piano religioso. «È vero, è cattolico e osservante. E personalmente è contro l’aborto», osserva. «Ma come presidente, tende a presentarsi in continuità con la linea del Partito democratico... E sulla politica gender non abbiamo ancora capito bene quale sia la sua posizione», sussurra, dando voce alla diffidenza e all’ostilità di buona parte dell’episcopato Usa verso Biden e il suo partito, considerati troppo liberal. 

 

Sono passati quarantacinque minuti, fuori comincia a fare buio: lontanissime, anche se in realtà sono a meno di un chilometro, si scorgono le luci di Roma. Benedetto consegna come ricordo del colloquio una medaglia commemorativa e un segnalibro con la sua foto benedicente: entrambe di quando era Papa. E di nuovo affiora il paradosso non solo suo ma di una Chiesa immersa senza volerlo nell’intreccio inestricabile di due identità papali. Ratzinger saluta, rimanendo seduto, con un accenno di sorriso, e ringrazia indicando le due vignette di Giannelli posate sul tavolino. In una, Benedetto abbraccia simbolicamente una piazza San Pietro gremita di folla: un ricordo nostalgico non solo del suo pontificato ma del mondo prima del Covid 19. Ed è un’immagine che stride con quella potente, drammatica di Francesco che il 27 marzo del 2020 parla dal sagrato della stessa piazza, desertificata dal coronavirus e spettrale. Nell’altra vignetta, a colori, il Papa emerito consegna a un Francesco dall’espressione corrucciata le chiavi della Chiesa, aggiungendo: «Mi raccomando…». Come sempre quando si tratta di Vaticano, realtà e simbolismo sono legati in modo indissolubile. E gli enigmi del Papa emerito tedesco e del Pontefice argentino sembrano fatti apposta per alimentare le leggende sul potere ecclesiastico e i suoi misteri. 

 

Uscendo dal monastero, scortati in auto da una guardia svizzera in borghese con l’auricolare, viene da pensare che quando Ratzinger ribadisce con un velo di voce «il Papa è uno», certamente si rivolge ai «fanatici» che non si rassegnano. Parla, per rassicurarli, ai seguaci di Francesco che temono l’ombra intellettuale di questo teologo vecchio e infragilito dall’età. Ma forse, dopo otto anni, con la sua voce interiore, il Papa emerito lo sussurra inconsciamente anche a se stesso.

 

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