Karol e i suoi ragazzidi Vittorio Messori

Sin da quando non era che un parroco della provincia polacca, don Karol ha attratto i giovani a sé, ne è sempre stato circondato, ma senza cedere in nulla a certo giovanilismo. Quello del «diamoci tutti del tu», quello delle pacche sulla spalla, quello di un «cattolicesimo alla chitarra» pronto a transigere, a chiudere uno, se non entrambi gli occhi sulle esigenze dell'etica evangelica.

Karol e i suoi ragazzidi Vittorio Messori

da Teologo Borèl

del 03 aprile 2005

 «Ci ha lasciati» non è, per un cristiano, espressione adeguata. Per la fede, il passaggio all’altra vita di chi ci è caro significa, al contrario, una presenza, una vicinanza assai più vive. È in questa consapevolezza che, della così ricca personalità del Pontefice defunto ma - stando alla fede - non «scomparso», scegliamo un aspetto tra i molti. Quello del suo rapporto con le nuove generazioni.

 

Ho grande rispetto, naturalmente, per l'attendibilità professionale dell’amico «Gioachino», come lo chiamava — con ironia affettuosa — quel nostro compagno comune che era Leonardo Mondadori. So, dunque, che Joaquìn Navarro Valls non parla certo a caso, so che c'è molto in lui della coriacea, austera Spagna visigota che fa di molti iberici i «tedeschi del Sud». Questo confermato, potrebbe darsi che ci sia qualcosa del «fioretto» edificante nell’interpretazione da lui riferita dei deboli, faticosi suoni proferiti da Giovanni Paolo II sul suo letto di agonizzante e che sarebbero stati rivolti ai giovani: «Vi ho cercati, siete venuti da mee per questo vi ringrazio ». In ogni caso, alla leggenda devota appartiene certamente il biglietto che il Papa sarebbe riuscito a vergare, sempre per i suoi ragazzi, per i suoi Papaboys.

Ma, in fondo, che importa? Non c'è bisogno di questi estremi episodi per avere conferma di uno degli aspetti che più hanno caratterizzato il pontificato: il rapporto di simpatia, di fiducia, si direbbe quasi di «alleanza» tra lui e i giovani. In questi giorni, gli accampamenti notturni in piazza San Pietro, il clima di attesa dolorosa e al contempo di gioia sotto il palazzo vaticano, le preghiere fervorose e i canti di speranza sono stati l'ultimo segno di un simile rapporto.

La cosa è ancor più singolare se si riflette sul fatto che, sin da quando non era che un parroco della provincia polacca, don Karol ha attratto i giovani a sé, ne è sempre stato circondato, ma senza cedere in nulla a certo giovanilismo. Quello del «diamoci tutti del tu», quello delle pacche sulla spalla, quello di un «cattolicesimo alla chitarra» pronto a transigere, a chiudere uno, se non entrambi gli occhi sulle esigenze dell'etica evangelica.

Tutto è stato don Karol, dall'ordinazione sacerdotale sino al supremo pontificato, tutto, tranne che uno di quei preti che, in blue jeans sdruciti e in magliette stazzonate, vogliono essere «come gli altri» e si accontentano che i ragazzi loro affidati seguano la vulgata lassista dominante.

Eppure, proprio qui sta il segreto di un'attrazione altrimenti inesplicabile: i giovani ne sono stati avvinti proprio perché non ha fatto sconti, perché ha annunciato il Vangelo nella sua radicalità, perché ha proposto un ideale arduo sino all'eroismo. Non un cristianesimo ridotto a innocuo umanesimo, a insipido moralismo politicamente e teologicamente corretto, ma una prospettiva ideale e un sistema di valori in contrasto radicale e militante, se necessario, con quello attuale.

Questa sua pedagogia di accoglienza e insieme di rigore, me la confermò egli stesso, con parole decise, rispondendo a una domanda sulle nuove generazioni in Varcare la soglia della Speranza.

Poche paginema intense, dove sembrano risuonare le intuizioni e lo stile di un santo di cui è stato sempre devoto ammiratore. Di quel don Bosco, cioè, i cui Salesiani hanno avuto subito in Polonia una straordinaria accoglienza e la cui rete di istituti e di oratori ha coperto buona parte del Paese.

Nessuno più del prete di Valdocco sapeva come ottenere l'affetto, la fiducia, la fedeltà dei ragazzi; ma pochi erano, come lui, maestri, confessori, predicatori così inflessibili quando erano in gioco le colonne portanti della morale cattolica.

Allegria e penitenza, spensieratezza e impegno, confidenza e rispetto, canti e, insieme, salmodiare di preghiere. Una lezione che Wojtyla (che, per un momento, pensò di farsi proprio salesiano) ha colto e ha saputo tradurre in pratica con i risultati che abbiamo potuto constatare sino all'ultimo. Invece che essere respinti da quel sentore di Vangelo nella sua radicalità, i giovani sono accorsi in massa. E in modo spontaneo.

È importante sottolineare proprio questa spontaneità, perché è all'origine di un fenomeno sorprendente, che ha assunto dimensioni grandiose e che è stato sinora trascurato dalla sociologia, pur attenta a segni molto minori. Parlo delle Giornate Mondiali della Gioventù: «Nessuno le ha inventate, sono stati essi stessi a inventarsele», mi disse il Papa nell'intervista. Aggiungendo: «Il più delle volte sono state una grande sorpresa per gli educatori, per i sacerdoti, persino per i vescovi. Hanno superato quanto essi si aspettavano».

In effetti, dietro a questi raduni non c'è stato alcun «piano pastorale», nessuna organizzazione dall'alto, neppure la traccia di qualche burocrazia clericale. Semplicemente, un milione di appartenenti alle nuove generazioni (due milioni, a Roma), di tutti i Paesi e le classi sociali, hanno avvertito il desiderio di mettersi uno zaino in spalla, di montare su un treno o di affidarsi all'azzardo dell'autostop per radunarsi attorno a un uomo anziano secondo l'anagrafe ma che sentivano coetaneo secondo il cuore. Non è un caso se, nella sua agenda di viaggiatore, cancellati tutti gli spostamenti a causa della malattia che progrediva, era rimasto un solo impegno: la Giornata, ad agosto, di Colonia. Rinuncia a tutto, dunque. Manon a questo appuntamento in cui, sino all'ultimo, il suo carisma ha mostrato una forza enigmatica.

Io stesso, lo confesso, ho dovuto ricredermi su questi raduni. Diffidente verso ogni adunata, soprattutto se «oceanica»; per niente attratto da quel «giovanilismo» di cui dicevo; scettico sulla sempre rinnovata — e sempre delusa—speranza che le nuove generazioni siano diverse e migliori delle precedenti: c'erano tutte le premesse per non entusiasmarmi alla notizia delle prime Gmg, come erano chiamate.

Temevo che fossero poco più che un aspetto di un certo folklore cattolico. Ho compreso che non era così, che, anzi, si era di fronte all’emergere di un importante fatto religioso quando proprio dei giovani, conoscendo la mia diffidenza, mi mostrarono un documentario girato da essi stessi durante la Giornata che sembrava più a rischio, quella nella scettica Parigi.

Vidi dunque che c'erano sì le chitarre, le tende, i girotondi, le bandiere multicolori; ma c'erano anche le lunghe code — sotto il sole estivo o nel buio della notte—davanti alle sedie dove stavano confessori con la stola violacea, c'era la compunzione evidente con cui quelle masse enormi ricevevano l'eucaristia, c'erano i rosari intonati senza ombra di ipocrisia, almeno per quanto all’uomo è dato di giudicare.

E tutto questo, provocato da un vecchio vestito in modo anacronistico, negli ultimi tempi curvo e appoggiato a un bastone, con la voce intaccata dalla malattia.

Un vecchio che, in quegli spazi enormi, non era che un puntino bianco, quasi indistinguibile, su un palco lontano. Eppure proprio da lui, da quanto diceva— e che non blandiva affatto ciò che molti giovani vogliono sentire, se si sta a certi miopi pedagoghi — emanava un fascino, una forza che aveva portato lì, spontaneamente, quelle masse. Seduzione del Vangelo, certo: ma seduzione anche del testimone e interprete di quelle antiche parole.

Vittorio Messori

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