L’emergenza sanitaria che stiamo attraversando ci mostra quanto sia importante il sapersi prenderci cura gli uni degli altri. Lo strazio del veder morire persone da sole e senza conforti ci riporta al bisogno di uno sguardo, di un conforto, di una carezza.
di suor Alessandra Smerilli, fma
“Molto tempo dopo, Edipo, vecchio e cieco, camminava lungo la strada. Avvertì un odore familiare. Era la Sfinge. Edipo disse: "Voglio farti una domanda. Perché non ho riconosciuto mia madre?". "Hai dato la risposta sbagliata", disse la Sfinge. "Ma questo era ciò che ha reso tutto possibile", rispose Edipo. "No", disse. "Quando ti chiesi: "Cosa cammina a quattro zampe al mattino? due a mezzogiorno e tre la sera, tu hai risposto, L'uomo. Non hai detto niente sulla donna". "Quando dici Uomo", disse Edipo, "includi anche le donne. Lo sanno tutti". La Sfinge rispose: "Questo è quello che tu pensi" (Myth, Muriel Rukeyser).
La scienza economica moderna si è costruita tutta al maschile. Non poteva essere diversamente, per i tempi in cui si è andata delineando come scienza autonoma, cioè alla fine del 1700. Abbiamo un padre fondatore, Adam Smith, ma non una madre fondatrice.
E anche nei momenti in cui si sono volute denunciare le discriminazioni in campo economico si è corso il rischio di peggiorare la situazione. Per esempio, nel 1869 l’economista John Stuart Mill pubblicò un libro dal titolo “The subjection of women” (l’asservimento delle donne) e così si esprimeva in esso: “Il principio che regola gli attuali rapporti sociali tra i due sessi – la subordinazione dell’uno all’altro sancita per legge – è un principio scorretto in sé che, diventato ormai uno dei principali ostacoli al progresso umano, andrebbe sostituito con un principio di assoluta uguaglianza”. Mill sosteneva che la differenza fra uomo e donna era visibile solo in quanto le donne non avevano le stesse possibilità degli uomini, ma, una volta eliminate le disparità, e una volta aperte le porte dell’istruzione e della carriera alle donne, esse sarebbero diventate in tutto simile agli uomini: nell’eccellenza, sosteneva, non c’è significativa differenza tra femminile e maschile. Ma questo modo di ragionare ha portato pian piano ad assumere il maschile come prototipo a cui rapportare tutto. Il sociologo Simmel, infatti, osserva che la posizione di potere che gli uomini ricoprono dentro le società finisce col generalizzare gli standard maschili, quasi fossero dell’intera umanità.
E come la sfinge ci suggerisce, l’errore, perché di errore si tratta, di aver pensato che dire uomo voglia dire includere anche le donne, sta ancora attraversando le nostre società. Ma le vulnerabilità, anche economiche, che questa pandemia sta rivelando, forse ci chiede di mettere in campo sguardi nuovi.
L’economista Victoria Bateman così scrive nel giornale “The Guardian”: “Le domande a cui gli economisti cercano di rispondere, gli strumenti che utilizzano per trovare le risposte (che sono principalmente matematici), le assunzioni standard che fanno lungo il percorso (per esempio che gli esseri umani sono senza emozioni, liberi e autointeressati), e ciò che scelgono di misurare, tutto riflette un modo tradizionale e maschile di guardare al mondo”.
La parola economia deriva dal greco oikos-nomos: cura e gestione della casa, dove per casa possiamo intendere le mura domestiche, ma anche la casa comune, il pianeta che abitiamo. La casa viene vista molto diversamente se a guardarla è un uomo o una donna. Fino ad ora lo sguardo sulla casa e sulla nostra casa comune, è stato molto maschile. L’uomo guarda soprattutto al lavoro, agli aspetti materiali e istituzionali: tutto ciò è molto importante, ma se diventa uno sguardo assoluto può deformare la realtà. La donna guarda maggiormente ai rapporti, a ciò che ha a che fare con la cura. Anche questo è uno sguardo che da solo non basta, ma ne sentiamo la mancanza dentro le grandi aziende, a livello politico, nelle istituzioni in generale.
L’emergenza sanitaria che stiamo attraversando ci mostra quanto sia importante il sapersi prenderci cura gli uni degli altri. Lo strazio del veder morire persone da sole e senza conforti ci riporta al bisogno di uno sguardo, di un conforto, di una carezza.
Lungo la storia la dimensione della cura è stata molto relegata alle donne e alla sfera privata: in pubblico si deve essere forti, non ci si può commuovere, il cervello deve prevalere sull’emotività. Così facendo abbiamo espulso una delle dimensioni fondamentali dell’essere umano dalla vita pubblica, e non l’abbiamo valorizzata. In questo periodo di permanenza forzata per molti nelle proprie abitazioni i carichi di lavoro domestico e di cura stanno trovando nuovi equilibri, e la riorganizzazione che una vita in movimento in convivenza con il virus ci richiederà, potrà vedere inediti apporti di sguardi femminili all’economia e al lavoro. Per citarne solo uno, caro alla filosofa canadese Jennifer Nedelsky, le nuove norme sociali sul lavoro potrebbero prevedere meno ore di lavoro per tutti (e stiamo sperimentando che molti lavori possono essere fatti anche a distanza), e, come parte integrante di un lavoro buono, alcune ore alla settimana dedicate al prendersi cura degli altri, in famiglia o nel vicinato. Dalla cura relegata alle donne e alla sfera privata, al prendersi cura come attività di rilevanza pubblica e di bene comune condivisa tra tutti. La casa comune può diventare più umana e più ospitale solo se la guardiamo e la pensiamo insieme, uomini e donne. Il mondo avrà fatto un passo in avanti se quando incontriamo una persona, prima di chiederle “che lavoro fai?”, le chiederemo “di chi ti prendi cura?” Se sapremo stimare chi sa fermarsi per offrire un gesto di attenzione a un anziano o un bambino, più di chi ha una vita così frenetica che non riesce neanche a fare una telefonata gratuita.
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