Lo sfruttamento della disperazione di chi fugge e la violazione dell'infanzia assumono i contorni di procedure sistematiche, di un modo come un altro per far soldi sulla pelle dei più deboli...
Quando non solo gruppi criminali ma anche alti ufficiali militari sono coinvolti nel traffico di esseri umani, diventa impossibile parlare di casi isolati. Anzi, lo sfruttamento della disperazione di chi fugge e la violazione dell’infanzia assumono i contorni di procedure sistematiche, di un modo come un altro per far soldi sulla pelle dei più deboli. È molto duro l’ultimo rapporto sulla situazione nel Corno d’Africa, un rapporto che non si limita a prendere in considerazione la difficile situazione dei profughi, ma anche quella dei giovani eritrei all’interno del loro Paese. Una situazione che da oltre due anni Avvenire ha documentato con testimonianze e reportage. Ora, senza mezze misure, anche alti papaveri dell’esercito dell’Asmara sono accusati di aver sequestrato e contrabbandato migliaia di ragazzi in cambio di denaro. È l’Eritrea che vende i suoi figli, ultimo passaggio di un Paese ormai allo sbando.
Il rapporto “The human trafficking cycle: Sinai and beyond”, opera di tre ricercatori svedesi e olandesi (Mirjam van Reisen, Meron Estefanos e Conny Rijken), è arrivato mercoledì sul tavolo del commissario europeo agli Affari interni, Cecilia Malmström. I dati sono impietosi: tra il 2007 e il 2012 nel Corno d’Africa 25-30mila persone, al 95 per cento eritrei, sono stati coinvolti nel traffico di esseri umani. Circa 5-10mila coloro che non sono sopravvissuti alle violenze, alla prigionia. E molte delle vittime sono bambini di appena due o tre anni. La tenera età dei protagonisti non intenerisce i gestori del business. Anche perché l’affare è grosso: il totale dei riscatti pagati dai loro parenti è stimato in oltre 600 milioni di dollari.
I ricercatori hanno parlato con oltre 230 persone vittime di sequestri e abusi. In gran parte si tratta di profughi, in altri casi di giovani eritrei rapiti da alti ufficiali militari. Per legge ogni studente eritreo deve frequentare l’ultimo anno di scuola superiore presso il campo militare di Sawa, nell’est semi-desertico del Paese. È qui che spesso avvengono i sequestri da parte degli stessi militari, che trasportano gruppi di ragazzi verso il confine sudanese. Al cuore delle operazioni l’Unità eritrea di sorveglianza delle frontiere, guidata dal generale Teklai Kifle, detto Manjus, già nel mirino delle Nazioni Unite. Una volta trasferite in Sudan (complici ufficiali di sicurezza locali), le vittime vengono costrette a telefonare ai loro genitori e chiedere riscatti fino a 10mila dollari, pena la vendita a gruppi di trafficanti beduini nel Sinai. E in diversi casi, anche se viene pagato il riscatto, i prigionieri passano comunque di mano, solo per ottenere altro denaro dai loro parenti.
Spesso le vittime vengono tenute in celle sotterranee e sottoposte a torture, con le urla fatte ascoltare ai familiari attraverso il cellulare. Le ragazze vengono violentate, spesso anche in pubblico. Fino a che non si paga c’è poca speranza di un rilascio o di una fuga. «Gli ostaggi vengono incatenati insieme – si legge nel rapporto –. Non hanno accesso a servizi igienici e sono disidratati, affamati e privati del sonno. Sono soggetti a minacce di morte e di traffico d’organi. Quelli che provano a scappare vengono severamente torturati».
I rapimenti avvengono anche nelle città. Una donna ha testimoniato di essersi recata ad un appuntamento di lavoro nel centro dell’Asmara. Successivamente la donna ricorda di essersi svegliata nella città sudanese di confine di Kassala. Insieme ad altri tre prigionieri le è stato chiesto un riscatto di 10mila dollari. A riscatto pagato, la donna e gli altri prigionieri sono stati comunque portati nel Sinai, dove le famiglie hanno ricevuto altre richieste di denaro per 35mila dollari. Alcuni degli ostaggi, compresa la donna, sono stati poi liberati, per essere però successivamente arrestati dalle truppe egiziane.
Il trauma non finisce infatti con il rilascio nel Sinai dei migranti e degli altri che sono stati sequestrati in Eritrea o Sudan. Gran parte di loro resta infatti in condizioni precarie al Cairo o a Tel Aviv. Rischiano altri sequestri, abusi o detenzioni da parte delle autorità locali, oltre al rimpatrio. La recente tragedia di Lampedusa, nella quale sono morti quasi 400 migranti in cerca di asilo, mostra i rischi di cui queste vittime devono farsi carico nel difficile viaggio verso la sicurezza.
Paolo M. Alfieri
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