Eccoci in mezzo all'estate, con quello che questa parola significa per molti di noi: campi, oratori strapieni di ragazzi, iniziative sportive e quant'altro... Effettivamente non c'è molto tempo, per niente, figurarsi per leggere... è quindi questo un numero dei QC che sa di non avere grandi numeri per imporsi all'attenzione (ma non certo per colpa sua!)... ed è un peccato, perchè la riflessione dell'Arcivescovo Williams, primate della Chiesa Anglicana, sull'obbedienza oltre a spunti di tutto rispetto per lo spirito, ha anche delle sottolineature estremamente interessanti sul versante politico. Una riflessione, quella dell'Arcivescovo, di cui si sente il bisogno... nella speranza che non sia un qualcosa di isolato, ma un seme che trovi accoglienza, il più ampia possibile. Politica, economia e dintorni sono realtà che nel nostro giornalino e nel nostro sito vengono appena mordicchiate e - spesso - in nome di tanti luoghi comuni, di tante semplificazioni che certamente non contribuiscono ad allargare la mente e il pensiero. Mi fermo qui, anche perchè lo spazio è quasi finito... non rimane che augurare una buona lettura,magari sotto un ombrellone, e una buona estate. So long><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><><>
del 09 luglio 2004
 
L'OBBEDIENZA CRISTIANA
di Rowan Williams
Primate della Chiesa Anglicana
 
 
 
Una riflessione sull'obbedienza ha buone probabilità di rivelarsi un tema non congeniale, in questi giorni (...) tuttavia non si tratta di un messaggio che possa essere ignorato tranquillamente o con leggerezza da un cristiano. 'Cristo per noi fu obbediente fino alla morte, e alla morte di croce': l'antifona degli uffici alla fine della Settimana santa echeggia ancora negli orecchi di alcuni di noi. La salvezza è ottenuta mediante la sottomissione, secondo l'evangelo. Prima però di lasciare che il nostro sentire si ribelli a quello che così facilmente parrebbe un affronto alla nostra autonomia, dovremmo considerare ciò che il Nuovo Testamento dice, e ciò che non dice, al riguardo. Gesù è obbediente, e la sua obbedienza, gli costa; essa va contro la natura del suo umano opporre resistenza al dolore e alla morte. Eppure è in conformità non con qualche autorità a lui aliena, con un tiranno ostile che sta nei cieli, ma con la radice della sua stessa vita. Egli stesso è la mente e il cuore di Dio; fissando lo sguardo dentro il mistero del suo originarsi nel Padre, egli realizza chi e che cosa è: l'incarnazione della volontà del Padre per la guarigione del creato.
Imitare Cristo nel suo sottomettersi non è, quindi, fare violenza alla propria realtà autentica, bensì scoprire se stessi come esseri creati, esseri la cui vita è fondata nel dono amoroso di Dio, e in nient'altro. La volontà di Dio è che viviate; ricercare l'obbedienza a lui è ricercare la vita, come nella grandiosa esortazione, nel libro del Deuteronomio, a 'scegliere la vita' ricevendo la legge di Mosè e facendovi obbedienza. E questo è inoltre il motivo per cui gli apostoli possono dire che la loro obbedienza è dovuta a Dio piuttosto che all'autorità umana, quando viene ordinato loro di rinunciare a ciò che fluisce dal loro vivere in Cristo. Sottomettersi a Dio significa entrare in contatto nel modo più diretto con ciò che più è reale. Rifiutarsi a tale sottomissione non significa essere liberi da una violenza aliena, ma divenire alieni a se stessi.
E quando san Paolo dice ai suoi convertiti di imitarlo come lui imita Cristo, espone la forma più basilare dell'obbedienza cristiana. Guardate a me che mi sforzo di guardare a Cristo, dice: considerate che cosa vuol dire cercare e permettere che il fondamento del vostro stesso esistere venga alla superficie e trovi espressione nei vostri atti: rendere ogni pensiero obbediente alla mente incarnata di Dio. É uno sforzo, tanto siamo diventati estranei alla nostra natura quale creazione amata di Dio. In Cristo, però, vediamo come una mente creata, un'identità umana come la nostra, può divenire perfettamente trasparente al dono di Dio, tanto da essere indistinguibile dalla mente di Dio Padre. Grazie al dono della sua vita nello Spirito, noi possiamo cominciare ad 'immergere' le nostre vite nella sua. E lo impariamo - come avviene per tanta parte della nostra esperienza umana - guardando a coloro che sono diventati pratici del mestiere: guardando a coloro che guardano a Cristo.
Il modo di fare del mondo è quello di imparare, gli uni dagli altri, gli abituali atteggiamenti di rivalità accaparratrice che dominano le nostre relazioni e alimentano i nostri conflitti. Come ci ha ricordato Renè Girard, impariamo gli uni dagli altri a volere ciò che l'altro vuole, e quindi a competere con l'altro per il possesso. Ma in rapporto a Cristo, volere ciò che l'altro vuole è volere la volontà del Padre: volere, cioè, il desiderio che il Padre ha di misericordia e di gioia per tutti gli esseri. Non possiamo volgere tutto questo in motivo di competizione. La nostra debolezza cristiana diviene il fondamento per una visione radicalmente nuova gli uni degli altri. Guardando agli altri per imparare Cristo, guardando al guardare dell'altro verso Gesù, i nostri desideri vengono ri-formati, e liberati per una vita nella comunione.
Allora l'obbedienza cristiana, nel suo senso biblico, non può mai essere soltanto un passivo conformarsi ai comandi, nella speranza che questa volontà ci assicuri, in un modo o nell'altro, una ricompensa. É un'obbedienza data in modo appropriato laddove vediamo l'autorità impegnata con una verità che va oltre il suo interesse e orizzonte: in definitiva con la verità di Cristo. Se l'obbedienza è una forma di attenzione, la persona attenta è quella che dovrebbe comandare obbedienza.
É questo il motivo per cui l'obbedienza politica è diventata, nella nostra epoca, tanto problematica. Eusebio di Cesarea, nel IV secolo, poteva elogiare l'autorità dell'imperatore Costantino, basandosi sul fatto che questi fosse costantemente impegnato nella contemplazione del Logos celeste. Non era, neppure all'epoca, una ragione molto plausibile; ma quanto meno egli aveva notato come ogni giustificazione cristiana per l'obbedienza ai governanti debba poggiare su un qualche riferimento alla loro capacità di assimilare una verità che non sia determinata dai loro propri interessi.
Noi ora non siamo soliti cercare, nei nostri governanti, dei segni di avanzate pratiche contemplative, nè diciamo, nemmeno come cristiani, che a governi non credenti non sia dovuta alcuna obbedienza. Quel che diciamo, però, è che ogni pretesa credibile sulla nostra lealtà politica deve avere qualcosa a che fare con una dimostrabile attenzione alla verità, perfino ad una verità sgradita. Un governo che abbia abitualmente ignorato il consiglio degli esperti, abitualmente spinto i propri interessi all'estero secondo modalità che ignoravano evidenti necessità e priorità del più ampio contesto umano e non umano, abitualmente represso le critiche o manipolato i mezzi d'informazione pubblici - un simile regime metterebbe a repentaglio, a dir poco, le proprie pretese di obbedienza, per avere rifiutato l'attenzione. Le sue politiche e la sua retorica non sarebbero infatti pensate per assicurare ai propri cittadini una posizione appropriata nel mondo, una posizione che - non ingannando nè incoraggiando inganni riguardo al modo in cui è fatto il mondo - permettesse il genere migliore di libertà. Sarebbe preoccupato in definitiva del controllo, e di nient'altro; e così costituirebbe una minaccia per i propri cittadini e per gli altri.
Il cristianesimo non ha una ricetta generale per al forma migliore di governo. Non è (con il dovuto rispetto per Tolstoj) intrinsecamente anarchico, e neppure (con il dovuto rispetto per Cranmer) intrinsecamente monarchico. Non raccomanda un'obbedienza acritica. Perfino al tempo in cui i pensatori politici anglicani argomentavano a favore dell’'obbedienza passiva' al governo ostile (cioè sopportare le conseguenze della non cooperazione, piuttosto che opporre una resistenza violenta), non si sanciva l'attiva acquiescenza a una legge ingiusta. Ugualmente, però, il cristianesimo non raccomanda una rivoluzione sistematica. É sempre stato realista riguardo ai costi umani di una sollevazione violenta, e sospettoso rispetto a ogni pretesa di offrire un punto di partenza completamente nuovo per la vita politica.
Ciò che invece certamente propone è una serie di interrogativi sull'autorità politica, interrogativi che dirigono la nostra attenzione verso ciò di cui il governo si occupa, e verso la misura in cui l'agire del governo è capace di estendersi, almeno qualche volta, al di là della preoccupazione per il proprio potere di controllo. E alla luce dell'ingiunzione fondamentale della fede cristiana, quella di essere attenti al volere di Dio come all'elemento più autentico e reale del nostro contesto, prestare attenzione al modo in cui un governo presta attenzione diviene un'espressione appropriata di obbedienza.
Nelle discussioni su questioni controverse di politica, specialmente di politica estera, si sente regolarmente addurre l'argomento che gli osservatori indipendenti (leader di chiese o simili) non possederebbero alcuna competenza data loro da Dio riguardo alla strategia o all'economia, che possa aver maggior peso delle risorse di informazione governative. E si osserva inoltre che noi eleggiamo dei governi perchè difendano i nostri interessi corporativi, non perchè siano degli statisti a livello globale. Entrambe le osservazioni - sebbene rappresentino una comprensibile reazione di impazienza nei confronti delle generalizzazioni ecclesiastiche - sono fuori posto. Il governo sarà sempre a conoscenza di alcune cose che i cittadini non sanno, e probabilmente non dovrebbero sapere; ma questo non è un argomento a favore della quiescenza civica. Alcuni cittadini, inoltre, sono a conoscenza di cose che il governo non sa e probabilmente dovrebbe sapere: le organizzazioni non governative, le chiese, gli educatori e quanti lavorano nel settore sanitario possono sapere ciò di cui né la diplomazia, né i servizi segreti sono consapevoli; e la richiesta che il governo si occupi di tale conoscenza, informale ma su vasta scala, è una condizione equa per riconoscere una pretesa da parte del governo sulla nostra attenzione di cittadini. E mentre è vero che non ci aspettiamo in primo luogo dai nostri leader che siano leader mondiali, un governo che ignori gli interessi degli altri popoli, nelle nostra economia globale sempre più strettamente interdipendente, mancherebbe colpevolmente di attenzione. Il nostro interesse nazionale non è mai, nel contesto attuale, puramente nazionale. L’obbedienza politica cristiana in questi giorni, allora, la «debita obbedienza» piuttosto che il semplice conformarsi, deve poggiare sulla fiducia in una capacità di attenzione da parte del governo; quest’ultimo merita la nostra lealtà attenta proprio nello stesso modo in cui il tutore merita quella dell’allievo: nell’apertura a una verità che va al di là del potere e dell’interesse. Ciò non significa aspettarsi dal governo un livello impossibile di altruismo corporativo e di generosità; i governi hanno dei mandati popolari da realizzare, non semplicemente dei programmi di benevolenza e giustizia da attuare. Eppure, parte del danno continuamente inflitto alla nostra salute politica ha a che vedere con la sensazione che gli eventi dello scorso anno, sulla scena internazionale, siano stati guidati da qualcosa d’altro che l’attenzione. Vi sono state cose che il governo credeva di sapere e pretendeva di sapere su una base privilegiata, le quali, è emerso, erano tutt’altro che certe; vi sono state cose che esperti regionali e altri sapevano, le quali sembrano non aver ricevuto attenzione.
Lasciando da parte il linguaggio melodrammatico del pubblico inganno, linguaggio che spesso non è che un altro mezzo per non occuparsi di quanto è difficile e richiede tempo per essere approfondito, l’evidenza suggerisce a molti che l’obbedienza a una verità complessa ha risentito di un senso di urgenza, il qual e ha reso più difficile l’attenzione. Un governo, di qualsiasi genere, ripristina la fiducia perduta soprattutto mediante la sua buona volontà di occuparsi di ciò che sta al di là dell’urgenza di imporre il controllo, e di mantenere un’iniziativa visibile e semplice; mediante la paziente assunzione di responsabilità e la libertà di ripensarci, magari anche di ammettere lo sbaglio o l’errore di calcolo. Felice quella persona, o quel governo, che può trovare con semplicità ed eleganza il gesto giusto, inevitabile, che si adatta pienamente alla verità delle circostanze.
L’obbedienza cristiana è un’obbedienza intelligente, un interrogare accurato, una lealtà che riflette e che talvolta sfida. L’obbedienza si è guadagnata una brutta fama a causa del suo utilizzo come alibi per la responsabilità («Stavo solo obbedendo agli ordini»: una frase che ha risonanze da incubo, dopo il secolo scorso); ma se partiamo dal nostro paradigma centrale di obbedienza vedremo che concerne soprattutto il lavoro di scoprire che cosa la verità richieda a noi: la verità di chi siamo e di dove siamo. Qualsiasi possa essere stata la teologia dell’obbedienza in epoche passate, ora non possiamo ignorare la democratizzazione del sapere, e la consapevolezza approfondita di come delle distorsioni ideologiche possano essere sostenute nella vita pubblica. Se l’obbedienza è essenzialmente attenzione, un modo di guardare per imparare ad agire secondo verità, è giusto che le pretese di venire obbediti vadano messe alla prova di conseguenza, vadano messe alla prova con equità e riflessione, non con un cinismo corrosivo riguardo al potere. È quanto avviene nella vita delle istituzioni intellettuali; è giusto che avvenga nell’ordine sociale. Non significa che dobbiamo rivendicare il diritto di riformulare noi stessi ogni decisione che il governo formula per noi; questa è una banalizzazione del governo democratico, per quanto molto tipica sulla nostra corrente scena politica. È possibile accettare una decisione governativa come legale e legittima anche quando si dissente, se si riconosce che è stato intrapreso un processo che ha qualche diritto di essere definito attento. Il singolo cittadino può avere torto; e in ogni caso, ha un voto alla successiva elezione.
Ma se tali processi non sono solidi e visibili, e non comportano qualcosa di più del semplice interesse del governo al momento, l’autorità del governo ne risente. Non è che ci troviamo di fronte a regolari campagne di disobbedienza pubblica di massa; può esserci un tempo anche per queste, come nelle battaglie per i diritti civili dell’America degli anni sessanta, ma sono giustamente rare, ristrette a casi in cui la disattenzione del governo sia divenuta una questione di ingiustizia seria e perdurante. Ci troviamo piuttosto di fronte a un generale venir meno della fiducia nel sistema politico della nostra nazione. Essere coinvolti in modo appropriato e critico in un simile sistema è una delle forme di obbedienza politica: è mettere i frutti della vostra attenzione a servizio del governo, al fine di suscitare la loro attenzione. È, si potrebbe dire, il tentativo di rendere anche i pensieri politici obbedienti a Cristo, implicitamente, se non esplicitamente. Oggi dovremmo essere persuasi ad avere bisogno di esortazioni all’obbedienza nel senso antico. Non dovremmo però illuderci che l’educazione della volontà tramite la sottomissione alla verità sia più semplice o meno importante.
E spetta ai credenti portare argomenti ed esempi in favore di un’attenzione obbediente per amore di Cristo e nel nome di Cristo, in ogni luogo in cui essa sia minacciata dalla fretta e dall’interesse personale – cominciando (è il caso di dirlo?) dai cuori pigri ed egoisti di quanti sono così pronti a parlarne, e così lenti a porre i loro propri pensieri sotto l’obbedienza a Cristo.
 
@Rowan Williams
 
Sermone tenuto nella Chiesa di San Benet Cambridge, 20 aprile 2004
 
Testo originale in inglese: www.archbishopofcanterbury.org
Traduzione a cura del Monastero di Bose
 
 
 
 
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