Si intitola L'ultima Thule ed è il disco finale della carriera di uno dei più grandi cantautori-poeti d'Italia. In questa lunga chiacchierata, Guccini racconta il suo percorso umano, oltre che musicale, e guarda al futuro che ci attende.
La notte pavanese che lui canta nell’ultimo disco è ancora di là dal sopraggiungere quando, oltrepassato il Ponte della Venturina e lasciato alle spalle l’estremo lembo appenninico di terra emiliana, tocchiamo finalmente Pàvana. Non è la prima volta che, con un paio di amici, vengo a trovare Francesco Guccini: per incontrarlo, chiedergli come sta e ringraziarlo una volta di più per quello che è, e per come è. Si tratta di un piacevole rituale, «un pellegrinaggio», scherziamo fra noi affrontando la salita conclusiva, che ogni volta conferma nella sensazione di trovarsi di fronte a una persona autentica, semplice di un’antica cortesia; certo non a un divo, ma a un uomo capace di dubbi e perplessità, capitato per sbaglio in un Paese tutto diverso, che non c’entra niente con lui. Nonostante la sua popolarità, addirittura in crescendo dopo il grande successo dei suoi lavori più recenti: il volume di memorie Dizionario delle cose perdute, che per parecchie settimane nel 2012 è stato tra i più venduti in Italia, e L’ultima Thule, l’album con cui ha scelto di congedarsi dalla scena della musica, uscito alla fine dello scorso novembre e diventato in breve disco di platino. Che abbiamo ascoltato, senza timore di risultare retorici, non solo con ovvia curiosità, ma anche e soprattutto con sincero affetto. Perchè siamo cresciuti con lui.
L’abbiamo sempre considerato il fratello maggiore che non abbiamo avuto, l’amico saggio cui confidare qualcosa di davvero segreto, il cantautore famoso ma in grado di resistere al fascino perverso dello star-system (abbiamo appreso solo dopo, un po’ per naturale coerenza e il resto per naturale pigrizia e naturale timidezza). Così, le sue dichiarazioni sul fatto che si sarebbe trattato della sua definitiva fatica artistica in campo musicale ha, inevitabilmente, aumentato il tasso di commozione. Perchè il sapore di tramonto di una lunga stagione che si porta dietro è – ammettiamolo – qualcosa che ci riguarda da vicino. La chiusura di un’esperienza intergenerazionale e condivisa con tanti, eppure da custodire gelosamente, e l’esaurirsi di un tempo che si apre su un altro non necessariamente peggiore, nella consapevolezza che le cose umane sono segnate dalla loro evanescenza. Ed eccolo qui, il Maestrone, ben piantato nella sua barba candida, i suoi 73 anni non celati e la sua tana appenninica avvolta di libri e di ricordi.
Dove si lamenta da subito di essersi deciso a tornare troppo tardi, quando già da tempo Bologna non la sentiva più sua; e dove comunque ha rimesso radici da oltre un decennio, accompagnato amorevolmente dalla moglie Raffaella, che insegna Lettere in una scuola media qui vicino, con la quale ha risistemato questa casa avita. Accompagnati da un buon bicchiere di vin santo – in onore del sottoscritto, ci tiene a precisare – si comincia a ragionare de L’ultima Thule. «Sì, ci siamo divertiti a registrarlo, stando qui, insieme con i musici – come li chiamo io da sempre – per un mese intero, e non in un asettico studio di registrazione cittadino. Come si può notare dalle riprese de La mia Thule, il documentario girato nell’occasione ». Che è andato anche in onda sulla Rai, e in cui si può constatare la straordinaria operazione che ha trasformato magicamente l’antico mulino del bisnonno Chicon – oggi un bed and breakfast gestito dai cugini del Nostro – in una sala discografica dotata di ogni genere di conforto. La cornice più giusta per un album impregnato di memorie, tra gioia e nostalgia, e di celebrazioni di quel che resta di antiche speranze. Come capita di regola ai vecchi, vi affiorano soprattutto le cose più lontane, che appaiono come le più forti e le più vere, avendolo accompagnato una vita intera.
Ha voluto con sè, ovvio, al modo dei marinai che si accodarono baldanzosi a Ulisse nel suo estremo folle volo, i soliti compagni: Ellade Bandini, Juan Carlos Flaco Biondini, Roberto Manuzzi, Antonio Marangolo, Pierluigi Mingotti, Vince Tempera. Marinai di lungo corso e sicuro mestiere che del loro comandante sanno ormai tutto, soprattutto di quanto c’è bisogno per accompagnarlo adeguatamente: discrezione, ordine, compostezza e una manciata di coloriture che non disturbino la comprensione delle parole e l’ascolto della voce. Tra le canzoni presenti nel disco, la sua predilezione va a Canzone di notte n. 4, la quarta – appunto – che nel corso della carriera ha dedicato a quel momento magico e unico in cui le cose tornano a essere sè stesse: «Stavolta si tratta di un pezzo che torna indietro nel tempo, alla mia infanzia, quando il mulino di Chicon ancora funzionava, luogo mitico dei miei anni giovanili, fino a chiudersi su una visione attuale, con le luci del presepe e il raggiungimento di un senso di pace e tranquillità. Quegli anni lontani sono qui evocati anche dalle due voci che, all’attacco del brano, richiamano quelle dei miei genitori che mi ricordano che a letto si va per dormire non per leggere, perchè la luce elettrica andava risparmiata.
In realtà, però, una cosa del genere non me l’hanno mai detta... Anche se è vero, piuttosto, che mio padre spesso, quando mi vedeva divorare i giornalini a fumetti, mi rimproverava perchè sosteneva che così non avrei mai coltivato la voglia di leggere! Pensa te! Io che nella mia vita non ho fatto altro che leggere, sin da bambino... Ho letto di tutto, a cominciare dai romanzetti d’appendice che trovavo in casa portati da mia zia, che faceva la cameriera in quel di Genova e per questo era considerata l’intellettuale di famiglia!». Quella della lettura è davvero un’idea fissa per Francesco, che sente ancor più da quando un fastidio agli occhi gli crea più problemi del solito per dedicarsi a quest’operazione così usuale. Tanto che, quando mi viene di chiedergli con che cosa a suo parere dovrebbe uscire un giovane dopo avere frequentato le scuole superiori, risponde al volo: «Le cose che dovrebbe aver acquisito un giovane sono... una sola: l’amore per la lettura. E’ questa l’acquisizione più importante, che ti consente di coltivare la curiosità per il mondo! Purtroppo, anche se conosco la scuola italiana solo per i racconti che me ne fa Raffaella, penso abbia subito un netto declassamento, e anche la lettura non sia molto considerata. Qualsiasi lettura! Ricordo che, quando mi diedero il Premio Montale, vent’anni fa, era stato premiato insieme a me l’illustre poeta Nelo Risi, che nelle interviste sui suoi autori chiave rispose: Baudelaire, Leopardi... mentre io dissi il Paperino di Carl Barks, un autentico capolavoro!». E ridacchia. D’ altra parte, assieme alla lettura, tra le sue grandi passioni c’è la scrittura, praticamente da sempre. «Sì, è vero: sin da bambino volevo fare lo scrittore, anche se i miei genitori non ne erano per nulla convinti! Tanto più che, parlando con il mio maestro delle elementari, a Modena, mio padre che gliel’aveva rivelato si era sentito replicare brutalmente: “Sì, lo scrittore! Lui che a scrivere è un cane!”. Beh, penso che quel maestro avesse risposto così soprattutto perchè, come tutti dalle nostre parti all’epoca, era impregnato di positivismo, e disdegnava le attività umanistiche... ».
Una passione che lo portò, alla tenera età di dodici anni, a vincere un concorso indetto dal settimanale cattolico a fumetti Il Vittorioso, il cui tema era Descrivi la tua città. Naturalmente Francesco dedicò lo scritto a Sambuca Pistoiese, iniziando così: «Nella forra tortuosa e boscosa del Limentra occidentale...». Poi il primo lavoro, accettando per stipendio pochi soldi per firmare improbabili pezzi di cronaca sulla Gazzetta di Modena («un’esperienza massacrante, ventimila lire al mese per dodici ore al giorno!»); una passione che, ora che ha deciso di smetterla con la musica («e non tornerò indietro in questa decisione, mi conoscete», anche se ride di gusto quando gli suggeriamo di dire che era stato frainteso...), avrà modo di coltivare ancor più intensamente. Intanto, con due progetti in corso: per Natale, probabilmente, dovrebbe uscire la seconda parte del Dizionario delle cose perdute («ci metterò dentro la cabina telefonica e le cartoline con le scritte prestampate, quelle con le foto dei due innamorati; oggi ormai nessuno più scrive cartoline...»).
E poi la seconda puntata della saga di Poiana, l’ispettore della Forestale Marco Gherardini, che ha fatto il suo esordio come protagonista nel noir appenninico di Malastagione, uscito un paio d’anni fa, scritto a quattro mani con lo scrittore e amico Loriano Macchiavelli: «L’Appennino non sarà come le Alpi o le Rocky Mountains, ma ogni tanto, come tutte le montagne, richiede le sue vittime sacrificali...». Verrebbe da dire: nonostante la fine della sua lunga avventura musicale, il Nostro ha «tante cose ancor da raccontare», non più nei palasport, ma dagli scaffali delle librerie. Poi si torna sull’ultimo lavoro, giunto a ben otto anni da Ritratti, del 2004. In cui Francesco, dopo L’isola non trovata (1971), recuperata dal prediletto Guido Gozzano, ricorre alla metafora di un’altra isola, quella di Thule, descritta nei diari dell’esploratore greco Pitea come una terra di fuoco e ghiaccio dove non tramonta mai il sole. Il suo Virgilio stavolta è un altro poeta che apprezza da sempre, Jorge Luis Borges (il riferimento è alla poesia Un lettore, da Elogio dell’ombra).
Ne è uscita una canzone a metà fra il bilancio e il saluto da lontano: dopo un viaggio, lungo quasi mezzo secolo, che si spegne in una lunga cavalcata barocca, con l’occhio rivolto all’orizzonte, dove tutto finisce (L’Ultima Thule attende e dentro il fiordo / si spegnerà per sempre ogni passione / si perderà in un’ultima canzone / di me e della mia nave anche il ricordo). Ma è vero che l’avevi in testa da tanto tempo? «Certo, la prima strofa l’ho scritta una quindicina d’anni fa, ma il titolo l’avevo già deciso subito dopo Radici, nel ’72: pensavo di chiuderla lì con la mia carriera di cantautore... Ero giovane, avevo speranza nella vita che andava avanti, mentre penso che qui sia già indicativa la foto usata per la copertina del disco. Scattata sull’ottantesimo parallelo, non ritrae un tempo che passa ma l’arrivo di un tempo passato, giunto su una nave senza ciurma, perchè non c’è più l’equipaggio di un tempo, che ha le vele afflosciate. Non c’è più niente da fare, se non andare e perdermi là, nell’Ultima Thule, in quel luogo mitico lontano e perso nel ghiaccio... nella fine infinita». Mentre Francesco parla, mi torna in mente un passaggio del monaco Enzo Bianchi che rileggo spesso e mi verrebbe da applicare a questa situazione, che dice più o meno: «Credo ci sia posto per una spiritualità degli agnostici e dei non credenti, di coloro che sono in cerca della verità perchè non sono soddisfatti di risposte prefabbricate, di verità definite una volta per tutte... una spiritualità che si nutre dell’esperienza dell’interiorità, della ricerca del senso e del senso dei sensi, del confronto con la realtà della morte come parola originaria e con l’esperienza del limite; una spiritualità che conosce l’importanza anche della solitudine, del silenzio, del pensare, del meditare».
Mi torna in mente, poi, qualche verso de Gli artisti, altro pezzo de L’ultima Thule, così autobiografico e struggente e dalle atmosfere chiaramente francesi, dove lui canta: Fabbrico sedie e canzoni/, erbaggi amari, cicoria,/ o un grappolo di illusioni/ che svaniscono nella memoria,/ e non restano nella memoria. Come li spieghi, Francesco? «Orazio, il grande poeta latino, ha scritto: Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo e più immortale dell’immortale mole delle piramidi. Io non credo che farò quella fine lì, non ho scritto canzoni più durature del bronzo e delle piramidi. Penso che ci siano canzoni che fanno parte della vita di ognuno, ognuno di noi ricorda brani legati a certi episodi del suo percorso, ma non sono molto più che grappoli nella memoria ». Ma se è così, come si spiega che molti giovani conoscano a memoria le tue canzoni e non pochi ti seguano addirittura in ogni data dei tour? «Me l’hanno già chiesto altre volte, e di solito me la cavo con una battuta, rimandando alla mia grande bellezza fisica... Non lo so, forse perchè le mie canzoni sono scritte per dire delle cose, nascono da qualcosa di vero, e di questo i giovani se ne accorgono!». Mentre lo salutiamo, dopo le foto di rito che vanno ad aggiornare il nostro già corposo album, sbuca non si capisce da dove il gatto nero che compare nella Canzone di notte n. 4. E la notte, che s’insinua in ogni anfratto,/ contro gli angoli più oscuri del paese. La lunga notte pavanese.
Brunetto Salvarani
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