Camilo Mejia è stato il primo soldato statunitense a finire in prigione per essersi rifiutato di combattere in Iraq. Dopo sei mesi in Medio Oriente chiese di diventare obiettore di coscienza. L'esercito lo condannò per diserzione. Questa è la sua ultima lettera scritta dietro le sbarre. Martedì 15 febbraio Camilo è stato liberato.
del 01 febbraio 2005
 Fui mandato in Iraq nell’aprile 2003 e sei mesi dopo tornai a casa per due settimane di licenza. Andare a casa mi diede l’opportunità di rimettere ordine nei miei pensieri e di ascoltare cosa doveva dirmi la mia coscienza. La gente mi faceva domande sulle mie esperienze di guerra e rispondere mi faceva tornare in mente l’orrore degli scontri a fuoco, degli agguati, della volta in cui vidi un giovane iracheno trascinato per le spalle in mezzo a una pozza del suo sangue, o di quando un uomo innocente fu decapitato dalla nostra mitragliatrice. La volta in cui vidi un soldato distrutto perché aveva ucciso un bambino, o un vecchio sulle ginocchia che piangeva con le braccia rivolte al cielo, forse per chiedere a Dio perché aveva preso la vita di suo figlio.
 
Pensai alla sofferenza delle persone il cui Paese era distrutto, e che erano ulteriormente umiliate dai raid, dai pattugliamenti e dai coprifuoco di un esercito occupante. E capii che nessuna delle ragioni che ci erano state dette riguardo la nostra permanenza in Iraq si erano dimostrate vere. Non c’erano armi di distruzione di massa. Non c’era nessun legame tra Saddam Hussein e al Qaida. Non stavamo aiutando gli iracheni e gli iracheni non ci volevano. Non stavamo limitando il terrorismo né rendendo gli americani più sicuri. Non riuscivo a trovare una sola buona ragione per stare lì, dover sparare alla gente e farmi sparare addosso.
 
Tornare a casa mi permise di vedere più chiaramente la linea tra il servizio militare e il dovere morale. Capii che ero parte di una guerra che credevo immorale e criminale, una guerra di aggressione, una guerra di dominio imperiale. Capii che agire secondo i miei principi era diventato incompatibile con il mio ruolo nell’esercito, e decisi che non potevo tornare in Iraq. Dicendo addio alle armi, scelsi di ritornare a essere un uomo. Non ho disertato né sono stato sleale nei confronti dell’esercito. Non sono stato sleale verso il mio Paese. Sono solo stato fedele ai miei principi.
 
Quando mi consegnai, pieno di dubbi e paure, non lo feci solo per me stesso. Lo feci per gli iracheni, anche per quelli che mi sparavano – erano solo dall’altra parte di un campo di battaglia, dove la guerra stessa era l’unico nemico. Lo feci per i bambini iracheni, che sono vittime delle mine e dell’uranio impoverito. Lo feci per le migliaia di civili sconosciuti uccisi nel conflitto. Il tempo che ho passato in prigione è stato un piccolo prezzo in confronto a quello che gli iracheni e gli americani hanno pagato con le loro vite. Il mio è stato un piccolo prezzo in confronto a quello che l’umanità ha pagato per la guerra.
 
Molti mi hanno dato del codardo, altri mi hanno definito un eroe. Credo di stare nel mezzo. A chi mi ha detto che sono un eroe, rispondo che non credo negli eroi, ma credo che le persone comuni possono fare cose fuori dal comune. A quelli che mi hanno chiamato codardo dico che hanno torto, e senza saperlo hanno anche ragione. Hanno torto se pensano che ho lasciato la guerra per paura di essere ucciso. Ammetto di aver avuto paura, ma era anche paura di uccidere degli innocenti, paura di mettermi in una posizione dove sopravvivere significa uccidere, paura di perdere l’anima mentre salvavo il mio corpo, paura di mancare a mia figlia, alle persone che mi vogliono bene, all’uomo che ero e che volevo diventare. Temevo di svegliarmi un giorno e capire che la mia umanità mi aveva abbandonato.
 
Dico senza alcun orgoglio che ho fatto il mio lavoro di soldato. Ho guidato in battaglia una squadra di fanteria e non abbiamo mai fallito la nostra missione. Ma quelli che mi hanno chiamato codardo hanno anche ragione. Sono stato un codardo non per aver lasciato la guerra, ma per esservi stato una parte. Rifiutarla e resisterle era un mio dovere morale, un dovere che mi ha spinto a prendere una scelta coscienziosa. Ho mancato al mio dovere morale di essere umano e invece ho scelto di fare il mio dovere di soldato. Tutto perché avevo paura. Ero terrorizzato, non volevo affrontare il governo e l’esercito, temevo di essere punito e umiliato. Andai in guerra perché in quel momento ero un codardo, e per questo chiedo scusa ai miei soldati per non essere stato il tipo di leader che avrei dovuto essere. Chiedo scusa anche agli iracheni. A loro dico che mi dispiace per i coprifuoco, per i raid, per le uccisioni. Che possano perdonarmi in cuor loro.
 
Una delle ragioni per cui non ho rifiutato la guerra dall’inizio era che avevo paura di perdere la mia libertà. Oggi, mentre siedo dietro le sbarre, capisco che ci sono molti tipi di libertà, e che nonostante la mia incarcerazione io rimango libero sotto molti aspetti importanti. Che libertà è se hai paura di seguire la tua coscienza? O se non puoi accettare le conseguenze di ciò che fai? Sono rinchiuso in prigione ma mi sento, oggi più che mai, legato a tutta l’umanità. Dietro queste sbarre mi sento un uomo libero perché ho dato ascolto a un potere più alto: la voce della mia coscienza.
 
A chi rimane ancora in silenzio, a chi continua a tradire la propria coscienza, a chi non chiama il male con il suo nome, a chi tra di noi non sta ancora facendo abbastanza per rifiutarsi e resistere, io dico “fatti avanti” e “libera la tua mente”. Tutti insieme, liberiamo le nostre menti, ammorbidiamo i nostri cuori, assistiamo i feriti, mettiamo giù le armi, e ritorniamo esseri umani per porre fine alla guerra.
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