«Celebrare il matrimonio cristianamente vuol dire rileggere il proprio amore alla luce di questa volontà di bene che ama gratuitamente e chiama ad amare gratuitamente».... 1' Parte.
Cosa vuol dire 'celebrare'?
Che cosa si celebra quando si celebra, ad esempio, la nascita di un bambino (battesimo), il suo accesso alla responsabilità cristiana (cresima) o il suo ingresso nella comunità ecclesiale (eucaristia)? Oppure, come nel caso di un adulto, quando questi sceglie un amore (matrimonio), si consacra ad un ministero ecclesiale (ordine), riconosce la propria colpa (confessione) o dà l'estremo saluto al fratello toccato dalla morte (unzione degli infermi)?
Abitualmente, al termine 'celebrazione' si associa, come suo complemento oggetto, il 'rito', per cui si parla di celebrare il rito del battesimo, il rito della cresima, il rito dell'eucaristia e così via. Anche se comune, questo modo di parlare resta ambiguo e il suo uso richiede vigilanza critica, come vogliono i filosofi analisti del linguaggio per i quali la corretta comprensione delle parole esige la consapevolezza esplicita di che cosa i parlanti - o gli scriventi - vi mettono dentro a seconda della 'rete semantica' o contesto che di volta in volta vanno 'tessendo', cioè creando.
Alla luce di questo principio si dovrebbe dire che non si celebra un rito ma un evento e che celebrare un evento è individuarne e farne emergere il significato profondo, portando allo scoperto e nominando, per introdurlo nell'ordine della consapevolezza esplicita e del linguaggio, il 'segreto' che lo sottende e che, come radice o linfa invisibile ma reale, lo chiama all'essere e lo fa essere disegnandone la bellezza e il senso. In questa prospettiva celebrare l'evento dell'amore umano - l'evento dell'amore che si accende tra un uomo e una donna e li porta a scegliersi e ad amarsi - è coglierne il segreto che lo sottende e lo fa essere, alimentandolo e rigenerandolo giorno dopo giorno.
Associare il rito alla celebrazione è però corretto se il genitivo (celebrazione del rito del matrimonio) viene inteso non come genitivo oggettivo (il rito che è oggetto della celebrazione) bensì come genitivo esplicativo: il rito che è e coincide con la celebrazione. In questo caso però si richiede ancora più vigilanza critica perché il termine rito, nei dizionari comuni e nello stesso inconscio o preconscio, oscilla tra due accezioni ambigue e insufficienti: da una parte quella che lo identifica a 'cerimonia' o 'funzione' per promuovere l'aggregazione e la condivisione di valori comuni con cui uno o più gruppi si identifica (il rito come comportamento sociale codificato), dall'altra quella che lo vuole sinonimo di routine e formalismo staccato dal vissuto e sprovvisto di valore esistenziale (il rito come ritualismo e sintomo patologico). Al di là della sua innegabile rilevanza sociologica e del suo inevitabile risvolto psicologico, altro è il rito per le religioni e le scienze religiose: l'apparizione e messa in luce, in linguaggio 'mitico' (un linguaggio dotato di un suo 'codice' peculiare) del mistero o segreto che sorregge e dà senso all'agire umano e al quale ogni essere è chiamato a con-formarsi per non precipitare o ri-precipitare nel caos che continuamente minaccia l'esistenza. Rito vuol dire infatti 'ordine', 'armonia' o 'cosmo' e dice che il mondo in cui l'uomo - ogni uomo - vive ed agisce proviene da un originario positivo e permanente, i cui nomi, a seconda delle religioni, delle culture, delle filosofie e delle tematizzazioni, sono vari (Dio, Natura, Essere, Parola, Voce, Comando, Trascendenza, Amore, Bontà), per cui è dotato di senso e di bellezza e può essere abitato come una casa amica e accogliente. Con il suo agire rituale - o, con termini simili, liturgico, simbolico, sacramentale, ecc. - l'uomo oltrepassa la dimensione estetica e funzionale del suo essere nel mondo e si coglie radicato o innestato su questo originario (principio, origine, arké o fondamento) dal quale, come da una fonte luminosa, si irradia luce e bellezza che trasforma l'esistenza, dandole una nuova 'forma' che è il senso stesso dell' essere nel mondo.
Si è detto oltre-passa: ma è più che evidente che 1' 'oltre' cui introduce l'agire rituale non è 1' 'oltre' che si giustappone al mondo dell'agire strumentale, dell'agire estetico o dell'agire erotico né tanto meno vi si oppone, ma lo giustifica e lo pone in essere. Si tratta perciò di un 'oltre' fondativo e rivelativo che sottrae l'agire dell'uomo alla minaccia del caos o al gioco delle apparenze e lo definisce e rifinisce come dotato di senso. È per questo che l'agire rituale ha sempre una portata salvifica: dare la grazia, guarire, liberare, ecc. Anche qui si tratta di una salvezza che non è qualcosa d'altro rispetto al mondo ma la sua stessa significazione o risignificazione: la possibilità di viverci positivamente, nonostante le forze negative che lo contrastano (penuria, conflitti, malattia, morte, ecc.). Queste, viste dal punto di vista dell'originario attualizzato dall'agire rituale, si rivelano senza potere reale, non più in grado di mettere in scacco l'esistenza umana.
Lo svelamento del 'fondamento' dell'amore
Nel suo noto romanzo La Nausea, Sartre mette in scena il personaggio Roquetin, che, dopo aver fatto l'esperienza dell'assurdità del reale, ha come un momento di sospetto e di arresto per cui è tentato di metterla in dubbio, almeno per un istante:
Mi sono alzato, sono uscito [dal giardino]. Arrivato alla cancellata mi sono fermato. Allora il giardino mi ha sorriso. Mi sono appoggiato alla cancellata ed ho guardato a lungo. Il sorriso degli alberi, del gruppo di allori, ciò voleva dire qualcosa; era questo il vero segreto dell'esistenza. Mi sono ricordato che una domenica, non più di tre settimane fa, avevo già sorpreso sulle cose una specie di aria di complicità. Era diretta a me? Ho sentito con disappunto che non avevo alcun mezzo di comprendere. Nessun mezzo. E tuttavia era là, in attesa, sembrava uno sguardo. Era là sul tronco del castagno... era il castagno. Le cose si sarebbero dette pensieri clic si fermassero a metà strada. che s'obliassero, che obliassero ciò che avevano voluto pensare, e che restassero così ondeggianti, con un bizzarro, piccolo significato che le sorpassava... Mi infastidiva questo piccolo significato: non potevo comprenderlo, nemmeno se fossi rimasto centosette anni appoggiato a quella cancellata; avevo appreso sull'esistenza tutto quello che potevo sapere (La nausea, Milano 1975, p. 205).
Roquetin, che qui rappresenta la visione sartriana e in parte secolarizzata dell'esistenza umana, oltrepassa, per un istante, la sua percezione del mondo come assurdo e si accorge che le cose lo sorprendono e gli sorridono ("allora il giardino mi ha sorriso"); ma di questo sorriso non comprende il senso, presentandosi come parola ambigua ("era proprio diretta a me?"), incompleta ("Le cose si sarebbero dette pensieri che si fermassero a metà strada"), sfuggente e bizzarra.
Di fronte a questo sorriso ambiguo di cui non comprende il senso, il personaggio sartriano si arrende e, invece di tentarne una comprensione, confessa di non averne la possibilità: "Ho sentito con disappunto che non avevo alcun mezzo di comprendere. Nessun mezzo". Ma nel dichiarare questa sua impotenza, Roquetin, prima che a se stesso, fa torto alla storia dell'umanità i cui riti religiosi, da sempre, sono - e vogliono essere solo - l'attestazione dell'esistenza di quel 'sorriso' originario il cui nome più appropriato è l'amore.
Il rito - ogni rito - è annuncio o kerigma che tutto ciò che esiste e che l'uomo fa non è alea, caos, assurdo o caso ma l'espressione e il canto dell'amore che tutto crea e in tutto si riflette.
C'è comunque un tratto, per il rito ebraico cristiano, che caratterizza questo amore originario ed è che non va inteso come principio, forza od energia che spinge, attira e attrae, secondo il modello dell'amore platonico di eros o desiderio, ma come volontà di bene o benevolenza che ama gratuitamente e chiama ad amare gratuitamente.
Celebrare il matrimonio cristianamente vuol dire rileggere il proprio amore alla luce di questa volontà di bene che ama gratuitamente e chiama ad amare gratuitamente. Rileggerlo: che vuol dire riconoscere (nel duplice senso di nuova conoscenza e di gratitudine per questa nuova conoscenza) che l'amore che un uomo e una donna si scambiano e sperimentano è traccia, segno o sacramento della volontà buona di Dio - il suo amore unico, libero e personale - che, come una dolcissima melodia o musica risuona in ogni frammento del reale, dalle stelle, al fiore, al filo d'erba, agli occhi dei bambini, ai capelli delle ragazze, al corpo del proprio amato o della propria amata. "Là dove un uomo e una donna si amano - recita l'esergo sottostante alla rivista «Matrimonio» - e in questo amore accogliendosi si avviano insieme a far nascere la propria umanità là traspare il volto di Dio": affermazione rilevante che fa dell'amore che un uomo e una donna si scambiano reciprocamente il sacramento stesso o traccia dell'amore divino cui rimanda. Ma - si noti bene - sacramento non sacramento perché anonimo e che, appunto perché tale, attende il rito (nel nostro caso il rito o sacramento cristiano) che ha il potere di svelare ciò che altrimenti è nascosto e sottratto all'ordine della consapevolezza e del linguaggio. A comprendere questa tensione o dialettica sono di aiuto le parole che, nella nota parabola matteana relativa al giudizio escatologico o finale, il Figlio dell'uomo rivolge alle 'pecore' (cioè ai salvati) fatti sedere alla sua destra per averlo sfamato, dissetato, visitato e ospitato. Alla domanda sorpresa di questi i quali non sanno nulla di tutto questo ("ma quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere...") il giudice escatologico risponde: "ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Mt 25, 40). Queste parole svelano la potenza di senso custodito e nascosto nel gesto semplice della mano che si tende verso l'assetato per dargli un bicchiere d'acqua o verso l'affamato per nutrirlo: non gesti insignificanti che si perdono nel nulla o nel frammento dell'istante ma evento di salvezza in cui, a insaputa stessa di chi li compie, accade l'incontro con l'assoluto: "lo avete fatto a me"!
Come la parola del giudice escatologico, il rito cristiano o sacramento svela il senso profondo dell'amore che accade tra un uomo c' una donna. Non vi si giustappone, non lo sacralizza, non Io divinizza, non vi aggiunge un nuovo significato proveniente dall'esterno ma lo s-vela, portando allo scoperto e mettendo in luce che in esso accade qualcosa di divino, che per questo, sfugge ad ogni volontà di comprensione e di dominio, come si sperimenta in ogni amore. E lo svela - osservazione importante - non per chi vi crede ma per tutti, credenti e non credenti, in quanto si offre a tutti come possibilità celata in ogni amore. Da questo punto di vista la celebrazione del matrimonio, non diversamente da ogni altro sacramento, più che 'salvezza' per chi lo celebra, è annuncio o kerigma, cioè buona notizia, che, per ogni uomo e ogni donna che si amano, si apre la possibilità dell'incontro con il Senso e con l'Assoluto, e quindi con la felicità.
Carmine Di Sante
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