L'articolo analizza una relazione tra la dominante cultura del nichilismo e l'esasperato interesse per lo sport in quanto spettacolo, diffuso in larghi strati popolari. Esamina il fenomeno e accenna a una possibile terapia centrata sull'educazione integrale della persona, la quale è caratterizzata dalla misura e dall'equilibrio che deve regolare la vita umana. Vogliamo mostrare la relazione che sembra intercorrere tra la cultura comunemente detta del nichilismo e il fenomeno del professionismo sportivo.
del 20 luglio 2005
 In un celebre saggio sulla natura e sul significato del gioco, Johan Huizinga era giunto alla conclusione che non può darsi autentica cultura senza una certa qualità ludica. Ma distingueva, nell’uomo che gioca e si diverte, un aspetto negativo e un aspetto positivo della sua attività ludica. C’è un gioco che allontana vigorosamente l’uomo dalla serietà della vita. E c’è un gioco che, uccidendo la noia e la monotonia, lo restituisce più sereno e laborioso alla vita[1]. Gli spazi ludici, come alternativa allo schema del lavoro quotidiano, servono a stabilizzare la morale del lavoro attraverso la padronanza del tempo libero[2]. Lo sport non si identifica con il gioco. Questo ha in sé qualcosa che diremmo umanistico, che distrae, solleva e forma lo spirito e non richiede un particolare addestramento. Lo sport invece comporta attività disciplinate da norme precise, lo sforzo della volontà e dei muscoli e il carattere agonistico. Non c’è dubbio che lo sport, contenuto nei limiti del buon senso e armonizzato con una vita di serio lavoro, sia la forma più efficace di sviluppo fisico della persona. Come alternativa agli ambienti chiusi del lavoro, dello studio, del cinema, esso favorisce all’aria aperta il sano esercizio delle più importanti funzioni dell’organismo.
Dello sport in questa versione positiva non intendiamo parlare, tanto essa è evidente per tutti. Vogliamo piuttosto mostrare la relazione che sembra intercorrere tra la cultura comunemente detta del nichilismo e il fenomeno del professionismo sportivo. Man mano che si sono costituite società sportive su basi finanziarie, gli atleti sono diventati merce di scambio tra le società che alimentano le proprie casse con le prestazioni degli atleti e il fanatismo delle tifoserie. Ma non sono soltanto le tifoserie a vivere di sport passivo. Una larghissima fascia della popolazione, ragazzi, giovani e finanche gente parecchio attempata, segue alla radio e alla televisione i resoconti delle competizioni degli sport più popolari, le sottili analisi sul valore di quel calciatore e di quel pilota di automobili, gli affari dei dirigenti delle società e delle aziende, gli affari di cuore e di soldi dei divi dello sport. Oltre alla stampa specializzata, ogni quotidiano e settimanale dedica almeno una pagina a tali imprese. E a diminuire o a mettere in crisi l’interesse delle masse servono poco le frequenti rivelazioni sul mondo dello sport che pongono gravi problemi di carattere etico. Parliamo dell’aspetto degenerativo di certi sport, come il pugilato e l’automobilismo che possono giungere fino al disprezzo della vita, della competitività fuori misura, del divismo, del doping, della riduzione dello sport a puro affarismo industriale con tutto ciò che segue, delle speculazioni  sulle prestazioni professionali[3].
E che dire del cinismo con cui ci si dichiara contenti per l’incremento delle entrate pubbliche a causa di giochi e scommesse di vario tipo? «Fa venire i brividi constatare che alla flessione di consumi non voluttuari e alla gelata dell’economia nazionale corrisponde una lievitazione delle enormi somme dedicate al gioco. Miliardi di euro sono stati bruciati con spensieratezza. Sono aumentati di quasi la metà in quattro anni. Sono cifre da manovra finanziaria»[4]. Questo fenomeno di dimensioni planetarie può essere considerato un parziale effetto del nichilismo che prevale nell’Occidente? A monte della masse amorfe influenzate dai miti sportivi agisce una cultura o una mentalità?
Nichilismo e sport
Più di mille discorsi sul nichilismo vale ancora la chiara parola di Nietzsche: «Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al “perché?”; che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi si svalorizzano». Dalla disgregazione dei valori segue che «tutto ciò che ristora, guarisce, tranquillizza, stordisce, sarà in primo piano, sotto diversi travestimenti, religiosi o morali o politici o estetici, ecc.»[5]. I valori supremi svalorizzati e negati sono: Dio, il fine ultimo, l’essere, il bene, la verità. Commenta Giovanni Reale: «La cultura contemporanea ha perduto il senso di quei grandi valori che, nell’età antica e medioevale e anche nei primi secoli dell’età moderna, costituivano punti di riferimento essenziali, e in larga misura irrinunciabili, nel pensare e nel vivere»[6]. Questo crollo ha condotto l’uomo occidentale alla sfiducia, all’indifferenza, all’impotenza, allo sforzo di crearsi un proprio sistema autoreferenziale. Perciò la nostra società non è soltanto complessa, ma anche perplessa e dimessa, cioè indecisa tra credere o non credere a qualcosa, senza entusiasmi e indifferente, capace di credere a tutto e contemporaneamente di non credere[7]. Alle masse resta la cultura del loisir, per dirla con il Morin, con i suoi spettacoli e le sue mitologie[8]. E allora, «figurarsi cosa diviene la società quando si esaltano istinto e impulso, quando si sottovalutano la volontà, responsabilità, moralità»[9]. Quando si è permeati da una tale cultura, dalla quale fa presto a formarsi la relativa mentalità, il loisir diventa facilmente una febbre, perché, come diceva Paul Valéry, il faut tenter de vivre.
Osservatori di diverso orientamento culturale sono concordi nel rilevare l’influenza dei media nella diffusione e nel rafforzamento di questa mentalità, di questa espropriazione dei valori. Essi agiscono abitualmente come modelli desacralizzanti del vero e del buono e come modelli che propongono la banalità e l’indifferenza. Dominatori della società dell’indifferenza, «la loro inevitabile funzione banalizzante altro non è se non il riflesso della società banale di cui sono, insieme, la variabile dipendente e il sostegno ideologico»[10]. E si spiega così la considerazione e il rispetto che ostentano con perfetta indifferenza per qualsiasi argomento, politica o religione o moda, scienza o sesso, cucina o sport. Umberto Galimberti ha notato che i media sono oggi luoghi di non comunicazione, appiattiti sul loro unico imperativo: divertire e ottundere con i rumori. «Per me questo è uno stigma dell’impotenza di ciascuno di noi. Nel senso che, dal momento che nessun individuo può cambiare il mondo, dal momento che nessun gruppo, nessuna associazione, nessuna configurazione sociale può trasformare alcunché, allora ridiamo»[11].
Esiste una relazione tra la cultura del nichilismo e la maniera con cui oggi è vissuto dalle masse lo sport, tra la rinuncia all’attività intellettuale e l’esaltazione della pura forza fisica, tra la perdita dello spirito autenticamente ludico, l’agonismo sfrenato e la polarizzazione sui fatti sportivi. Perciò nello sport si insinuano sempre più alcuni degli aspetti peggiori della vita contemporanea, «l’insofferenza di ogni disciplina e di ogni regola, il rifiuto egoistico di un giudizio obiettivo che sia contrario ai nostri desideri, la volontà di averla vinta ad ogni costo e con poca fatica, la vanità che si nutre di apparenze più che di meriti sostanziali»[12].
Già negli anni Trenta del secolo scorso, José Ortega y Gasset aveva intuito che l’Europa, rimasta senza ethos, avrebbe assistito alla nascita di un «uomo-massa», che non sarebbe più riuscito a credere a niente. Il suo diagramma psicologico avrebbe mostrato due segni evidenti: la libera espansione dei suoi desideri vitali e l’assoluta ingratitudine verso quanto ha reso possibile la facilità della sua esistenza. È il ritratto del «bimbo viziato». È la riapparizione di quel tipo deformato di esistenza umana che era già comparso nel «giovin signore» delle aristocrazie dei secoli passati che aveva, tra i suoi tratti caratteristici, la propensione a fare dei giochi e degli sport l’occupazione centrale della vita[13]. La febbre dello sport contagia, dunque, l’uomo anonimo, senza programmi arditi da realizzare, che nasconde l’inquietudine, non caratteriologica ma di origine culturale, nella mediocrità che evita responsabilità e problemi e nella volgare avidità con cui cerca il godimento di massa e vi si spende tutto. È come se, non potendo più credere a qualcosa di solido, affermasse il suo diritto alla volgarità. È il Monsieur-Tout-le-Monde, l’uomo della banalità quotidiana descritto dal 1926 da Heidegger[14]. Ma forse meglio lo si descrive come l’uomo comune d’oggi che ha visto affievolirsi gli orizzonti di significato e latitare ogni altra fonte di senso[15].
L’educazione integrale
Per guarire o almeno temperare la febbre dello sport esiste una terapia. Non è di immediata attuazione, ma alla lunga potrebbe rivelarsi certamente efficace. La Chiesa la chiama educazione della persona umana integrale. Essa prevede e propone lo sviluppo armonico dei valori dell’intelligenza, della volontà, della coscienza e della fraternità. In questa formazione dell’uomo rientrano, accanto ai valori religiosi, filosofici e scientifici, anche quelle attività che «affinano lo spirito dell’uomo»: gli studi liberamente scelti, il turismo, gli esercizi e le manifestazioni sportive[16]. Tra i mezzi che contribuiscono a elevare l’uomo, la Chiesa colloca «i mezzi che appartengono al patrimonio comune degli uomini e sono particolarmente adatti al perfezionamento morale», nei quali sono anche «le molteplici società a carattere culturale e sportivo»[17]. È evidente che questi testi non incoraggiano né l’invadenza dello sport nella vita, che può giungere fino ad assorbire passionalmente ogni altro interesse, né una concezione di sport come puro spettacolo agonistico. Piuttosto privilegiano quella dimensione ludica della quale, come abbiamo visto, avevano trattato Huizinga e Moltmann. Ed è soprattutto un’esortazione alla misura, all’equilibrio che deve regolare in ogni cosa la vita umana.
Ed equilibrio e misura ci richiamano a un’altra considerazione. Platone diceva che la bellezza è l’aspetto che il Bene riveste per suscitare l’amore degli uomini e così indirizzarli verso una vita più degna. Ora, il gusto del bello non si esaurisce soltanto nell’arte e nel godimento delle bellezze naturali. C’è una bellezza che governa anche le manifestazioni della vita quotidiana, gli usi, i costumi, il linguaggio corrente, il soddisfacimento delle pretese e degli impulsi, il controllo dei sentimenti, il rispetto per se stessi. È la bellezza inerente all’esercizio della ragione, che impone misura e ordine nelle cose e nello spazio che loro concediamo nella costruzione di noi stessi[18]. È probabilmente la più vera terapia per contenere gli eccessi delle miserie umane.
[1] Cfr J. HUIZINGA, Homo ludens, Milano, Il Saggiatore, 1964; R. CANTONI, La vita quotidiana, Milano, Mondadori, 1995, 152-154.
[2] Cfr J. MOLTMANN, Sul gioco. Saggi sulla gioia della libertà e sul piacere del gioco, Brescia, Queriniana, 1971, 21 s.
[3] Cfr G. PERICO, «Sport», in Dizionario enciclopedico di teologia morale, Roma, Ed. Paoline, 19743, 1034-1043.
[4] G. BARBIELLINI AMIDEI, «A caccia di fortuna», in Nuova Responsabilità, febbraio 2005, 5.
[5] F. NIETZSCHE, Frammenti postumi: 1887-1888 (vol. VIII/II delle Opere, Milano, Adelphi, 19792, 12 s.
[6] G. REALE, Saggezza antica. Terapia per i mali dell’uomo d’oggi, Milano, Cortina, 1995, 11.
[7] Cfr G. MORRA, «Postmodernità e indifferentismo religioso», in Firmana, 1998, n. 17, 57-64; G. RICONDA, «Cristianesimo, modernità e nichilismo», in Archivio Teologico Torinese 10 (2004) 17-36.
[8] Cfr E. MORIN, L’industria culturale. Saggio sulla cultura di massa, Bologna, il Mulino, 1963, 69-79; 111-115.
[9] M. LESSONA FASANO, Terzo Millennio. L’enigma uomo, Napoli, Liguori, 2000, 45.
[10] G. MORRA, «Postmodernità e indifferentismo religioso», cit., 61 s.
[11] U. GALIMBERTI, La lampada di Psiche, Bellinzona, Casagrande, 2001, 39.
[12] N. ABBAGNANO, La saggezza della vita, Milano, Euroclub, 1986, 102.
[13] Cfr J. ORTEGA Y GASSET, La ribellione delle masse, Bologna, il Mulino, 1962, 50 s; 91 s; 175. L’originale è del 1930.
[14] Cfr R. CANTONI, La vita quotidiana, cit., 438.
[15] Cfr CH. TAYLOR, Il disagio della modernità, Roma - Bari, Laterza, 1994, 65-81.
[16] Gaudium et spes, n. 61.
[17] Gravissimum educationis, n. 4.
[18] Cfr R. BODEI, Le forme del bello, Bologna, il Mulino, 1995, 17-33.
Giandomenico Mucci S.I.
Versione app: 3.25.0 (f932362)