La mediazione di Gesù è speciale, perché Egli non rappresenta una delle molte parole di Dio, ma è la Parola stessa di Dio. La fede è un legame personale, filiale, nuziale: nel-la fede incontriamo le persone divine, veniamo generati da Dio, impariamo a corrispondere a Dio!
La nostra fede trova il suo fondamento primo e ultimo in Gesù: nella sua esperienza di Dio facciamo esperienza di Dio, nel suo essere il Figlio anche noi maturiamo come figli. Egli è infatti, come dice il Concilio, «mediatore e pienezza di tutta la rivelazione» (DV 2), ed è anche, come si legge nella Lettera agli Ebrei, «l’autore e il perfezionatore della fede» (Eb 12,2). “Mediatore”, “pienezza”, “autore”, “perfezionatore”: su queste quattro parole, così dense e solenni, imposteremo la nostra quarta catechesi. Gesù ci apparirà come il tutto della nostra fede: è Lui che ne dice la verità e ne offre la realizzazione, che ne sta all’inizio e ne rappresenta il compimento; è Lui che dischiude le verità della fede e rende possibile l’atto di fede, che ci dona la fede come dono divino in modo tale che sia al tempo stesso un atto umano (CCC 153-154); è Lui che ci salva dal male e ci dona la vita eterna, ci fa conoscere Dio e operare in lui, perché «la fede è una sola, ma di duplice genere: non riguarda soltanto i dogmi, ma è causa di prodigi» (Cirillo di Gerusalemme).
Gesù è fondamento della fede perché è anzitutto il perfetto Mediatore della rivelazione. È vero che noi credenti riconosciamo Abramo come nostro padre nella fede, ma con Gesù non c’è confronto: Egli stesso, discutendo con i farisei, disse che Abramo «vide il suo giorno e se ne rallegrò», perché «prima che Abramo fosse, io sono» (Gv 8,56.58). È dunque vero che la fede si fonda sulla benedizione ricevuta da Abramo per la sua obbedienza e la sua disponibilità al sacrificio, ma questo è appena paragonabile con l’obbedienza e il sacrificio di Gesù «fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8): è in Lui che abbiamo ogni benedizione ed è nel suo sangue che abbiamo la redenzione (Ef 1,3.7). Comprensibile la gioia di Abramo nel vedere il suo giorno!
La mediazione di Gesù è poi speciale, perché Egli non rappresenta una delle molte parole di Dio, ma è la Parola stessa di Dio: «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei pro-feti, ultimamente, in questi giorni, ci ha parlato per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Gesù non porta soltanto notizie su Dio, ma è l’esprimersi stesso di Dio, e non in forma parziale, ma definitiva: «Cristo è la Parola unica, perfetta e definitiva del Padre, il quale in lui dice tutto, e non ci sarà altra parola che quella… Dio, attraverso tutte le parole della Sacra Scrittura, non dice che una sola Parola, il suo unico Verbo, nel quale dice se stesso interamente» (CCC 65.102). La nostra fede non è in questo senso un’ideologia o una morale, ma una persona e un incontro, e non dà luogo solo a idee e imprese, ma anzitutto a un rapporto d’amore. La fede è un legame personale, filiale, nuziale: nella fede incontriamo le persone divine, veniamo generati da Dio, impariamo a corrispondere a Dio!
In questo senso si comprende che Gesù non è solo il mediatore della rivelazione, ma anche la sua Pienezza, precisamente Mediatore in quanto Pienezza. Il motivo è quello che il Concilio ha ben espresso dicendo che Gesù, Verbo fatto carne, «fu mandato come “uomo agli uomini” e “parla le parole di Dio”» (DV 4). Significa che essendo vera-mente Figlio di Dio e veramente Figlio dell’uomo, Gesù è il rivelatore e il rivelato, il messaggero e il messaggio, colui che annuncia il Regno e il Regno stesso nella sua persona, colui che suscita la fede e il suo contenuto fonda-mentale. Credere in Dio è dunque inseparabilmente credere in Gesù. Molte le espressioni di Gesù a riguardo: «questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato» (Gv 6,29), e perciò «abbiate fede in Dio e abbia-te fede anche in me» (Gv 14,1), perché «chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato» (Gv 12,44-45).
In altre parole, Gesù è la pienezza della fede, e proprio così il mediatore, perché fra Lui e il volto paterno di Dio, così come fra Lui e il vero volto dell’uomo, non c’è alcuno stacco, ma solo una felice corrispondenza. La sua pretesa è infatti letteralmente inaudita: «chi vede me vede il Padre» (Gv 14,9), perché «io e il Padre siamo una cosa so-la» (Gv 10,30), e perché «il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa» (Gv 5,19). È proprio l’identità filiale di Gesù, che porta in sé e porta a noi la sostanza del Padre, il motivo per cui Benedetto XVI insiste sull’unità profonda fra i contenuti della fede e l’atto della fede. Se la fede va sempre insieme «professata, celebrata, vissuta e pregata», e sempre alimentata «con la Parola di Dio e il Pane di vita» (Porta fidei, 9.1), è perché le verità della fede coincidono con la coscienza che ne ha Gesù, il quale davvero è per noi «via, verità e vita», cosicché nessuno può giungere al Padre se non attraverso Lui (Gv 14,6): è dunque stringendo un legame più forte con Lui che comprenderemo meglio le verità della fede, le loro ragioni e le loro profondità.
Siamo ora in grado di comprendere il senso e la densità dell’affermazione secondo lcui Gesù è “autore e perfezionatore” della fede. Che Gesù sia Autore della fede significa che il rapporto fra Gesù e la nostra fede non è in alcun modo esteriore. Dal punto di vista del Figlio significa sottolineare il realismo della sua Incarnazione: Egli è autore della fede perché la realizza in maniera singolare e insuperabile nella sua umanità. Dal nostro punto di vista significa dare risalto alla comunione vitale con Gesù: credere è partecipare alla conoscenza e all’amore del Figlio nei confron-ti del Padre, alla sua obbedienza e alla sua confidenza. Credere in Gesù ha dunque un significato pregnante: vuol dire credere “per Cristo, con Cristo e in Cristo”, innestati nel suo perfetto affidamento al Padre e nel suo abbandono fiducioso alla Sua volontà.
Che la fede cristiana sia un innesto nella “fede” di Cristo è reso evidente dalla forma di discepolato che l’annuncio del Vangelo ha assunto fin dalle origini, e soprattutto dalla forma sacramentale che ha assunto dalla Pasqua in avanti: davvero nella fede non si tratta anzitutto di sapere e di fare, ma di lasciarsi attirare nella vita di Gesù e di fare comunione con Lui. Per questo la fede ha la forma di un itinerario: credere è incontrare Gesù, ascoltare e accogliere il suo annuncio, conoscerlo e amarlo seguendone le orme, lasciarsi conformare a Lui e rivestire i suoi sentimenti, immergersi nella sua morte e risurrezione, partecipare al suo sacrificio e alla sua gloria, alla sua umiltà e alla sua autorità, essere e rimanere suoi discepoli e diventare suoi coraggiosi testimoni.
Ma Gesù è infine il Perfezionatore della fede, colui che la porta a piena maturità. Qui la nostra ammirazione e la nostra gratitudine per Gesù deve toccare il vertice, perché davvero, come dice con commozione la Lettera agli Ebrei invitando a tener ferma la propria professione di fede, «non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). Infatti Gesù, per obbedienza al Padre e per amor nostro, ha voluto attraversare e lasciarsi attraversare da tutta la nostra fragilità di creature, farsi carico della nostra debolezza nel fare il bene, della nostra vulnerabilità alle tentazioni, del poco coraggio a credere fino in fondo, della paura di fronte al dolore e alla morte, della poca coscienza di quanto il peccato sia per noi distruttivo e mortale.
Ed ecco allora che accade l’impensabile! La sua già perfetta obbedienza di Figlio viene perfezionata e coronata dalla sua sofferenza, ma proprio così rende anche noi capaci non solo di entrare nella fede, ma di viverla fino in fondo, non solo di lasciarsi riscattare dal suo preziosissimo sangue, ma di collaborare al riscatto di altri, dovesse costarci il sangue: «proprio per questo, nei giorni della sua vita terrena, egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,7-9). È grazie a questa estrema obbedienza di Gesù, che ogni credente potrà affrontare vittoriosamente ogni preoccupazione, ogni prova, ogni dolore.
Come vivere l’insegnamento di questo mese? Anche questa volta due suggerimenti, uno per la preghiera, un altro per l’apostolato: in breve, contemplare e comunicare il volto di Gesù.
Se credere è immedesimarsi con il Signore Gesù, allora il primo compito, che nella vita cristiana dovrebbe essere permanente, è quello di «tenere lo sguardo fisso su Gesù» (Eb 12,2). La Parola di Dio dell’Avvento e del Natale darà il ritmo alla nostra attesa di Gesù, al nostro incontro con Lui, farà crescere la nostra sensibilità ad ogni forma di venuta del Signore: la sua venuta nella car-ne, nella contemplazione dei misteri della sua vita in compagnia di Maria nel Rosario; la sua continua venuta eucaristica, procurando di fare bene e frequentemente la Comunione; la sua venuta nella Gloria, preparando una buona Confessione natalizia come se dovessimo presentarci davanti a Gesù nell’ora della morte.
Se la fede si accende nell’incontro con Gesù, parleremo di Gesù a tutti, lo additeremo come esempio ai figli e agli amici, indicheremo o offriremo occasioni di incontro e di meditazione del Vangelo.
Don Roberto Carelli
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