Il nesso fra la fede e la gioia è molto stretto. Ed è convincente! La fede dà gioia e si manifesta nella gioia, perché credere è il frutto dell'incontro con l'amore di Dio e rende capaci di amare dell'amore di Dio. Non a caso il Rettor Maggiore richiama il “vangelo della gioia” come uno degli aspetti che caratterizza tutta la storia di Don Bosco.
Il ciclo di catechesi di quest’anno, interamente dedicato al tema della fede, prende l’avvio con un atto di gratitudine nei confronti del Santo Padre Benedetto XVI. In un momento in cui la Chiesa è dolorosamente presa nella morsa dell’incomprensione del mondo e dei peccati dei suoi figli il Papa ci aiuta a «non farci vincere dal male, ma a vincere il male con il bene» (Rm 12,21), e ci riporta all’essenziale, a ciò che veramente conta, a quella fede che ci fa conoscere Dio, ci fa sperare in Lui e ci fa amare del Suo stesso amore. La gratitudine verso il Papa diventa doppia, se si considera che il tema della fede non è il frutto di una programmazione fatta “a tavolino”, ma si ispira alla memoria di due eventi di capitale importanza per la fede stessa: il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II (1962) e il ventesimo anniversario della pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica (1992).
Meditare sulla fede in questo nostro tempo di “nuova evangelizzazione” è realizzare un triplice dono: per i credenti è rischiarare la mente, rinfrancare il cuore e ravvivare lo slancio missionario; per i non credenti è rilanciare la questione di Dio in un mondo che non può certo estirparla, ma tende a dimenticarla; per i credenti in altre religioni è onorare tutto ciò che è oggetto delle loro più profonde convinzioni e additarne il pieno compimento. Proprio in questa prima catechesi ci fermeremo sul significato che la fede riveste nei confronti dei due fenomeni degli uomini che cercano Dio lontano dalla religione e quelli che lo cercano nella religione. Sì, perché la fede ha a cuore gli uni e gli altri, ma al tempo stesso contesta allo stesso modo le forme di negazione irreligiosa di Dio e le forme religiose della sua manipolazione: tanto che il primo comandamento, col suo richiamo al culto dell’unico e vero Dio, pone un argine assoluto tanto ai tentativi di costruire o strumentalizzare l’immagine di Dio (come la superstizione, l’idolatria, la divinazione e la magia), quanto ai tentativi di pensare e vivere come se Dio non ci fosse (come nel secolarismo, nell’agnosticismo e nell’ateismo teorico o pratico) (cfr. CCC 2110-2132).
È un fatto che le forme dell’irreligione, prevalentemente occidentali, ma che assumono portata mondiale per via dei processi di globalizzazione, tendono a squalificare la fede a pura credenza soggettiva, priva di qualsiasi evidenza e oggettività, incapace di sostenere il dialogo tra le persone e inadatta a suscitare consenso nel dibattito pubblico. L’ovvietà che viene attribuita a questa opinione ha di che sorprendente! È proprio il contrario del modo con cui la fede si è sempre compresa, e cioè come punto di riferimento comune e affidabile per ogni uomo, esattamente perché la sua fonte e il suo oggetto non ha dimensioni umane ma è la rivelazione storica di Dio, e a questo titolo può esercitare la più forte resistenza ad ogni forma di irrazionalità e arbitrio soggettivo.
Certo, non si può semplicemente dimenticare che le fedi, in quanto rinviano a Dio come a un fondamento assoluto, hanno spesso legittimato forme di violenza fisica e morale, ma questo è semplicemente il caso massimo del mistero del male, che in ogni caso è perversione del bene. Non è peraltro difficile constatare che dove il bene è più grande, tanto più grande è il male che si sprigiona dal suo capovolgimento: se già un vaso di marmo può essere un oggetto decorativo o distruttivo, tanto più terribile può essere di volta in volta il nome di Dio, qualora l’uomo tenda ad impadronirsene invece che riconoscerne la signoria. Ci accontenteremo soltanto di ricordare che la fede cristiana si fonda su un Dio che è tutto amore, che è assolutamente incapace di violenza, ed è così poco interessato a difendere il proprio buon diritto a mano armata o a mortificare l’uomo con la sua onnipotenza, da non richiedere nessuno spargimento di sangue se non quello del proprio Figlio amorosamente consenziente. In breve, l’Assoluto cristiano non ha niente a che vedere con l’ostinata affermazione di sé, ma si identifica unicamente con l’incondizionata dedizione per gli altri!
Il decreto di irrilevanza della fede promulgato dalle società secolari, malgrado le molte ragioni storiche che ne stanno all’origine, stupisce davvero. E pensare che la fede, così come i cristiani la comprendono, è davvero una cosa meravigliosa. La fede, già solo come fiducia nella bontà delle cose, come affidamento ad altri e affidabilità per altri, è il modo giusto di stare al mondo, l’unico modo per rapportarsi a ciò che nella vita è davvero importante. Poiché l’uomo non è istintivo come un animale né intuitivo come un angelo, egli è irriducibile a ciò che è semplicemente visibile o semplicemente sottratto alla visibilità: non vive mai nell’ordine dei puri fatti o dei puri ragionamenti, ma sempre e solo nell’ordine dei doni e della libertà di riconoscerli e di corrispondervi, nell’ordine delle promesse e nella libertà di accordare o non accordare credito al loro possibile adempimento. In questo senso, l’uomo è radicalmente un essere credente: la fede non si aggiunge alla sua natura in maniera esteriore, ma la qualifica intimamente: egli nasce affidato a qualcuno e a qualcuno sempre si affida, in bene e in male. Non vi è perciò alternativa al credere: da vedere è solo a chi credere, cosa credere, e con quanta radicalità.
Se poi si viene direttamente alla visione cristiana, allora, diversamente dall’opinione estremamente sommaria che circola nella cultura diffusa, la quale riduce il credere al ritenere o meno che Dio esista e fa della fede una modalità del sentire piuttosto che del conoscere, la fede dischiude una ricchezza di significati che lascia senza parole! Chi crede fa esperienza di Dio: «chi crede in me crede in colui che mi ha mandato» (Gv 12,44); supera il giudizio: «chi crede in lui non è condannato» (Gv 3,18), «riceve il perdono dei peccati» (At 10,43), «è giustificato in tutte le cose» (At 13,49); vince inoltre la morte: «chi crede in me, anche se muore vivrà» (Gv 11,27); ed entra nella vita: «il giusto vivrà per la sua fede» (Gal 3,11); entra precisamente nella vita di Dio: «chi crede in me ha la vita eterna» (Gv 6,43); di conseguenza trova solidità e felicità, sazietà e fecondità: «chi confida nel Signore è come un albero piantato lungo l’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi; nell’anno della siccità non intristisce, non smette di produrre i suoi frutti» (Ger 17,7-8), «sarà saziato» (Prv 28,25) e farà anch’egli le opere di Gesù «e ne farà di maggiori» (Gv 14,12).
Anche di fronte al mondo delle religioni il Vangelo è una buona notizia, perché la fede onora, riscatta e porta a compimento tutto quanto vi è di buono in ogni religione: «la Chiesa riconosce nella altre religioni la ricerca, ancora nelle ombre e nelle immagini, di un Dio ignoto ma vicino, poiché è lui che dà a tutti vita e respiro ad ogni cosa, e vuole che tutti gli uomini siano salvi. Pertanto la Chiesa considera tutto ciò che di buono e di vero si trova nelle religioni come preparazione al Vangelo» (CCC 843). La forma cattolica della fede è infatti per sua natura universale e inclusiva, non esclusiva o escludente. Lo è per molte buone ragioni. Anzitutto perché riconosce che l’uomo è in quanto tale un essere religioso, radicalmente orientato a Dio e intimamente desideroso di conoscerlo. È qui notevole che il primo capitolo del Catechismo esordisca proprio con queste parole: «il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo, poiché l’uomo è stato creato da Dio e per Dio» (CCC 27). In altre parole, l’uomo “desidera” Dio perché viene “de-sidera”, appunto da Dio!
Certo, le religioni presentano in se stesse molti lati oscuri e molte incongruenze fra di loro, ed è anche vero che l’intimo e originario legame con Dio «può essere dimenticato, misconosciuto e perfino esplicitamente rifiutato ». Eppure, «malgrado le ambiguità che possono presentare, le loro forme d’espressione sono così universali che l’uomo può essere definito un essere religioso» (CCC 29.28). L’universalità del fatto religioso è una certezza talmente radicata nella fede che la Chiesa non ha mai smesso di affermare che l’uomo è capace di conoscere validamente Dio già con le forze naturali, e questo perché la sua natura è originariamente creata dalla grazia e chiamata alla grazia, è misteriosamente configurata ad immagine di Dio e destinata a una piena partecipazione alla vita di Dio: e dunque Dio, in quanto principio e fine di tutte le cose, «può essere conosciuto con certezza con il lume naturale della ragione umana partendo dalle cose create» (DV 6). Vi è in effetti nell’uomo una nozione di Dio tanto misteriosa quanto reale, che, prima ancora della rivelazione, e come preparazione ad essa, gli proviene dalla bellezza della creazione e dalla profondità del cuore umano, particolarmente dalla voce della coscienza che indica il bene morale, che aspira all’infinito e cerca la felicità, che non sa fermarsi ai beni finiti, ma anela a ciò che è incondizionato (cfr. CCC 31-35).
Sulla base del desiderio religioso presente in ogni uomo e sulla sua capacità naturale di averne conoscenza, la fede onora e riscatta il patrimonio delle religioni anche il fatto che essa non è radicalmente estranea rispetto ad esse: il motivo fondamentale è che Gesù, «con la sua incarnazione, si è unito in certo modo ad ogni uomo» (GS 22), e poi perché, di conseguenza, non vi è nessun uomo né alcuna religione che non sia ordinata alla Chiesa, la quale, a sua volta, assume in pienezza tutto quanto vi è di autentico in ogni uomo e in ogni cultura. Da qui i diversi livelli di comunione che la Chiesa cattolica intrattiene con le altre forme di religiosità: ai cattolici viene rivolto il monito di guardarsi dal disprezzare e rinnegare la grazia speciale ricevuta senza alcun merito personale: ne va della loro salvezza eterna (LG 14); agli ortodossi e agli evangelici è richiamata l’unità indotta dalla comune fede battesimale (LG 15); gli ebrei vengono riconosciuti come il popolo eletto, il popolo della prima alleanza e della promessa, e i musulmani fanno unità con la Chiesa per la fede nel Dio creatore; la Chiesa non è infine estranea ad ogni uomo che cerca Dio con cuore sincero e rettitudine di vita, assicurando che la Provvidenza di Dio non fa mancare ad essi gli aiuti in ordine alla salvezza (LG 16). Compresa l’idea che la Chiesa non è esteriore alle religioni, ma è come il cuore del mondo, la lampada sul monte e il lievito nella pasta, è importante mostrare a tutti, specialmente ai giovani, quanto sia erronea e pericolosa la risoluzione relativistica del fatto religioso. Ciò significa che non è vero, se non a livello superficiale, che si è cattolici perché nati in Italia, o musulmani perché nati in Arabia, ma si è cattolici per annunciare a tutti il volto di Dio che Dio stesso ha rivelato nel suo Figlio, e per Suo espresso mandato, in forza del Suo potere e godendo della Sua presenza: «mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,18,20).
Come dunque testimoniare agli uomini e alle donne che cercano Dio nella religione o fuori dalla religione la bellezza della fede, tenendosi lontani da ogni forma di acquiescenza (anche se per ragioni di dialogo) e di intransigenza (anche se per amore di verità)? Vi è un contrassegno della fede autentica che è immancabile, e che tra l’altro è tratto tipico dello spirito salesiano: la gioia! Il nesso fra la fede e la gioia è molto stretto. Ed è convincente! La fede dà gioia e si manifesta nella gioia, perché credere è il frutto dell’incontro con l’amore di Dio e rende capaci di amare dell’amore di Dio. Non a caso il Rettor Maggiore, in corrispondenza al secondo anno di preparazione alla celebrazione del secondo centenario della nascita di Don Bosco, mettendo in primo piano la sua esperienza educativa, richiama il “vangelo della gioia” come uno degli aspetti che caratterizza tutta la storia di Don Bosco e che mostra tutto l’accordo fra l’umano e il cristiano che qualifica il suo Sistema preventivo in corrispondenza ad una “pedagogia della bontà”. «Don Bosco ha intercettato il desiderio di felicità presente nei giovani e ha declinato la loro gioia di vivere nei linguaggi dell’allegria, del cortile e della festa; ma non ha mai cessato di indicare Dio quale fonte della gioia vera».
Due sono le indicazioni educative che ne vengono:
1. coltivare ciò che dà gioia vera: non quella effimera ed euforica, illusoria e deludente, proveniente da tutte quelle esperienze che portano via la gioia promettendo soddisfazioni passeggere e paradisi artificiali che intorpidiscono il cuore, avviliscono l’animo, distruggono i sogni, rendono schiavi, allontanano dal gusto delle cose di Dio e minacciano la salvezza eterna; ma quella che mette radici, che perdura nel tempo, che regge alle prove, che permane anche nel dolore, che trova motivo nel fatto che Gesù c’è, che è presente e operante, e che ci aspetta il Paradiso insieme a Maria e i santi;
2. custodire la gioia alimentando il legame strettissimo fra felicità e moralità, fra “santa allegria” ed “esatto adempimento del proprio dovere”, per realizzare quella bontà fatta di opere buone e di affabilità d’animo che è al tempo stesso testimonianza dell’amore di Dio e carta vincente per l’educazione dei ragazzi.
Don Roberto Carelli
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