Un mondo che resta sordo al grido dei poveri.
Diceva madre Teresa di Calcutta: «Quanto meno abbiamo, più diamo. Sembra assurdo, però questa è la logica dell'amore». Parole che appaiono come un paradosso, certamente, ma ci sono mille esempi che ne possono dimostrare la profonda verità. Perché, non c'è dubbio, e basta aprire solo un po' le orecchie per rendersene conto, più si ha e più si trovano, o accampano, ragioni e scuse per tenersi ben stretto quel che si ha. Fino ad arrivare a, per così dire, “istituzionalizzare” – lo vediamo e lo sentiamo purtroppo tutti i giorni – la negazione dei diritti dei poveri.
È quell'«egoismo della ricchezza» che Giovanni Paolo II denunciò senza mezzi termini nella Centesimus annus, e che nel suo messaggio per la Quaresima papa Francesco ha definito «raffreddamento della carità». Quella sorta di atrofia che prende tutte le volte che permettiamo al nostro cuore, in nome di logiche che nulla hanno a che vedere con l'amore evocato nella frase riportata all'inizio da madre Teresa, di restare sordo al grido dei poveri.
Una dinamica, questa, senza uscita?
No. Anzi, come ci ricorda papa Francesco nel messaggio, una dinamica dalla quale ci si può «curare»; perché, ha scritto, «l'esercizio dell'elemosina ci libera dall'avidità, e ci aiuta a scoprire che l'altro è il mio fratello: ciò che ho non è solo mio. Come vorrei che l'elemosina si tramutasse per tutti in un vero e proprio stile di vita. Come vorrei che, in quanto cristiani, seguissimo l'esempio degli apostoli e vedessimo nella possibilità di condividere con gli altri i nostri beni una testimonianza concreta della comunione che viviamo nella Chiesa».
L'elemosina, dunque, come una sorta di “ginnastica dell'amore”, un modo, per dirla in altre parole, per restare a contatto con una realtà che non possiamo né dobbiamo mai considerare estranea, “altra da noi”, lontana. Come disse infatti papa Wojtyla parlando di san Pietro ai ragazzi, il 28 marzo del 1979, «... L'elemosina, in se stessa, va intesa essenzialmente come atteggiamento dell'uomo che avverte il bisogno degli altri, che vuol partecipare agli altri il proprio bene. Chi vorrà dire che non ci sarà sempre un altro, che abbia bisogno di aiuto, anzitutto spirituale, di sostegno, di conforto, di fraternità, di amore?... Così definita, l'elemosina è un atto di altissimo valore positivo, della cui bontà non è permesso dubitare, e che deve trovare in noi una disponibilità fondamentalmente di cuore e di spirito, senza della quale non esiste vera conversione a Dio».
Occorre, dunque, recuperare quella “logica dell'essenziale” che, sola, può consentirci di ordinare un'autentica scala di valori. Per dirla con le parole usate da Benedetto XVI nel suo messaggio per la Quaresima del 2008, «ciò che dà valore all'elemosina è l'amore, che ispira forme diverse di dono... Se nel compiere una buona azione non abbiamo come fine la gloria di Dio e il vero bene dei fratelli, ma miriamo piuttosto a un ritorno di interesse personale o semplicemente di plauso, ci poniamo fuori dall'ottica evangelica... L'elemosina evangelica non è semplice filantropia: è piuttosto un'espressione concreta della carità, virtù teologale che esige interiore conversione all'amore di Dio e dei fratelli».
Ed è allora in questo spirito che papa Francesco, ancora una volta, chiama tutti fedeli alla stessa risposta del Vangelo: «Come vorrei – ha scritto – che anche nei nostri rapporti quotidiani, davanti a ogni fratello che ci chiede un aiuto, noi pensassimo che lì c'è un appello della divina Provvidenza: ogni elemosina è un'occasione per prendere parte alla Provvidenza di Dio verso i suoi figli; e se Egli oggi si serve di me per aiutare un fratello, come domani non provvederà anche alle mie necessità Lui che non si lascia vincere in generosità?».
Fonte: Avvenire
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