...li divide in due fasce di età: i giovani fra 14 e 18 anni e quelli fra 18 e 28. «Sono due categorie differenti: la prima ha come contropartita la scuola; la seconda ha l'università e il lavoro». E afferma: «Ho più fiducia nei ragazzi del primo gruppo: hanno delle sponde...».
del 08 febbraio 2005
 Giovanni Bollea, l'innovatore della neuropsichiatria infantile italiana del dopoguerra, li divide in due fasce di età: i giovani fra 14 e 18 anni e quelli fra 18 e 28. «Sono due categorie differenti: la prima ha come contropartita la scuola; la seconda ha l'università e il lavoro». E afferma: «Ho più fiducia nei ragazzi del primo gruppo: hanno delle sponde. Sono pieni di desideri consumistici, ma anche pensierosi: migliori, in generale, dei giovani dei miei tempi e migliori di quanto lo Stato li aiuti a essere. Quelli che rivendicano la libertà, i tifosi della curva, i motociclisti spericolati, i ballerini del sabato sera, eccetera, fenomeni esplosi col Sessantotto, sono una minoranza».
A fianco della quale esistono ragazze e ragazzi che pensano al futuro, partecipano a manifestazioni culturali, politiche, religiose. «C'è un fermento», dice Bollea. Tant'è vero che, «preso da questa sensazione di positività», ha sostenuto il progetto di farli votare a 16 anni per il sindaco. «È comunque un'età di sbandamento e volevo contribuire a dar loro una 'stella polare': se ti obbligo a votare, e quindi a pensare come dev'essere organizzata la tua città, aumento anche la comunicazione padre-figlio e professore-studente. Soffro quando leggo sui giornali che una 'banda' di 5 studenti ha, per esempio, allagato la scuola».
 
Che cosa la fa soffrire?
«Sono un'infinitesima parte e hanno fatto una bravata. Ma che cosa facciamo, noi, per guidare meglio questa massa creativa e ricca di entusiasmi? Sì: lo vivo come un dramma. Attribuiamo molto o tutto al consumismo. Ma quante famiglie sono al limite della sopravvivenza? C'è contrasto tra quel che sentono e vedono e ciò che vivono sulla loro pelle. Comunque è una moltitudine verso la quale il mondo degli adulti ha poca pazienza. La droga, alla quale pochissimi ricorrono, è un rifugio passeggero: una fuga, perché nessuno dà loro qualcosa d'importante da fare».
L'altra fascia di età dai 18 ai 28 anni, la tarda adolescenza, è invece una massa che le fa paura.
 
Perchè?
«Dopo gli studi, dopo l'università, ragazzi e ragazze entrerebbero volentieri nel mondo del lavoro, che però li rifiuta. E lì è la delusione, lì si manifesta la depressione. Per i laureati il vuoto è ancora maggiore. I cosiddetti precari tentano molte vie con scarso successo. Perdiamo molte forze che, ben guidate, potrebbero essere costruttive. Invece devono 'arrangiarsi'».
 
Questo pensiero la angoscia o la irrita?
«È il concetto più negativo che possa esserci. Alla fine degli anni Cinquanta mi sono battuto per una legge che obbligasse lo Stato ad assicurare il primo lavoro a diplomati e laureati, perché il disinganno di non trovarlo porta a una crescita anomala, anche moralmente, o non armonica psicologicamente. Molti casi di depressione, di esaurimento nervoso, di tristezza, e anche di discussioni familiari, esplodono in questa moltitudine tardo-adolescenziale. Non è in crisi soltanto la cultura della garanzia: il grande dramma è l'insicurezza. Nella giustizia, nella morale, nella politica, noi adulti non abbiamo saputo creare un mondo dove ci siano certezze fondamentali. La morale è messa in dubbio ovunque e la via d'uscita non si trova».
 
Quali mancanze si possono rimproverare alla famiglia?
«La famiglia non è colpevole: è schiava essa stessa. Una volta i genitori conoscevano tutto il mondo che entrava negli occhi dei figli e potevano educarli con l'amore e l'esempio. Oggi lo ignorano: la televisione viene accesa quando i figli hanno 3 anni e ai genitori sfugge la maggior parte delle loro conoscenze. Non parliamo poi dell'assorbimento durante la pre-adolescenza. I genitori possono soltanto ascoltare: solo attraverso l'ascolto, conversando, nei limiti del possibile, possono capire quello che il figlio sa già. Sarebbero sufficienti due ore e mezzo al giorno da parte della madre, mezz'ora da parte del padre».
 
Qualcuno riesce a ritagliarsi questo spazio cruciale?
«L'ascolto manca. Una volta c'erano nella famiglia due generazioni: i genitori e i nonni. Adesso la famiglia è composta di padre, madre, un figlio o due. E non può reggersi su uno stipendio solo: così, lavorano entrambi i genitori. Quindi c'è questo silenzio della conversazione. Malgrado ciò, ci sono madri da santificare, e anche padri, per la loro profonda capacità di sacrificio. E di formare, nonostante siano oppressi dalla stanchezza».
 
La scuola risponde, magari parzialmente, alle domande, manifeste o sottintese, dei giovani?
«Insieme alla famiglia, è uno dei cardini di una società. Ma vive enormi difficoltà: dalla formazione dei docenti al loro aggiornamento. Ho presentato un libro stupendo che dimostra l'enormità delle sofferenze psicologiche degli insegnanti: esiste una sindrome che provoca una stanchezza educativa in gran parte di loro. È molto grave. Il professore deve tornare a essere un elemento principale. Avevamo, in passato, una triade educativa: il maresciallo, il maestro, il prete. Poi c'era la famiglia. Oggi la scuola fa il massimo, ma non è all'altezza, non riesce a formare: perché si deve misurare con il disordine, con l'incertezza che affligge la gioventù. La famiglia, comunque, non deve vedere la scuola come nemica: con tutti i difetti, sono ancora il binomio vincente di una Nazione. Un buon governo deve eliminare gli ostacoli che le affliggono e difenderle».
 
Intravede qualche segnale che lascia sperare o le prospettive tendono tutte al negativo?
«Penso alla religione e al suo grosso problema. Spero che si capisca lo spirito con cui lo dico: le scuole religiose sono troppo moderne. Io voglio una scuola religiosa più primitiva: che veda l'uomo nella sua realtà e si preoccupi soprattutto del suo comportamento di ogni giorno, dell'eticità della sua vita. Il comandamento principale dell'insegnamento di Cristo è l'undicesimo: non fare agli altri quello che non vuoi facciano a te. La fratellanza dev'essere l'obiettivo della Chiesa : chiudendo gli occhi su certi aspetti negativi della gioventù, sorvolando sulle piccole mancanze».
 
La Chiesa ha un compito importante da svolgere?
«Straordinariamente importante. Cerchiamo di essere amorevoli. 'Prima che il gallo canti, tu mi avrai tradito tre volte': la pochezza umana Cristo l'ha dimostrata. Cerchiamo di perdonare, ma prima cerchiamo di definire cos'è il perdono. Il perdono ammette la colpa. Dobbiamo aggiornare le colpe. Tanti atti, che una volta erano colpevoli dal punto di vista religioso, non lo sono più. L'individuo non vive in una stanza asettica. E non c'è un eroe. Bisogna fare una graduatoria dei peccati sulla base dell'evoluzione della società. È giusto che lo studente sappia che deve essere onesto, ma è un essere umano e può peccare: non esiste peccato che l'uomo della Bibbia non abbia commesso. Fa bene la Chiesa a combattere certe devianze sessuali, ma dovrebbe essere più determinata e più forte sull'eticità: sull'amore per l'altro, sulla comprensione. E sul perdono: Cristo ha perdonato la prostituta. E sulla difesa: è la Chiesa che deve difendere i nostri giovani dalle aggressioni che arrivano da tutte le parti, soprattutto dalla televisione. Ma in maniera moderna: impegnandosi allo stremo sull'educabilità, sull'etica, che è cosa diversa dalla moralità. L'etica è il senso del dovere dell'uno verso l'altro. La moralità è una lotta tra te e i tuoi istinti, quando vengono eccitati e stravolti dal mondo esterno: dai media soprattutto».
 
(4.continua)
Luigi Vaccari
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