È dunque importante che i giovani siano aiutati a discernere bene nei loro vissuti affettivi, perché imparino a decifrare nei simboli di quest'emozione privilegiata una promessa e un compito ineludibile per la loro libertà
del 26 dicembre 2016
È dunque importante che i giovani siano aiutati a discernere bene nei loro vissuti affettivi, perché imparino a decifrare nei simboli di quest’emozione privilegiata una promessa e un compito ineludibile per la loro libertà
Iniziamo una riflessione pastorale sull’accompagnamento dei giovani verso il fidanzamento e il matrimonio, affrontando innanzi tutto il tema dell’innamoramento. L’argomento ha di che apparire immediatamente interessante, non solo perché riguarda una delle esperienze più rilevanti della giovinezza, ma anche perché è uno dei pochi elementi antropologici che riesce, almeno in parte, a resistere al «disincanto» funzionalistico della cultura dell’Occidente. Per quanto, infatti, l’ambito del rapporto affettivo tra l’uomo e la donna subisca nella comunicazione pubblica non poche banalizzazioni, esso rappresenta pur sempre una delle esperienze fondamentali e condivise, che redimono il vivere quotidiano dalla ripetitività produttiva e dalla banalità. Per questo, anche in un clima culturale fortemente appiattito sull’immediato, i simboli della tenerezza e dello stupore, della scoperta dell’altro e della dedizione innamorata mantengono un’insostituibile capacità evocativa del senso del vivere.
Questa sopravvivenza dell’«incanto» che circonda l’innamoramento, a differenza per esempio del matrimonio, non significa però che la cultura diffusa fornisca ai giovani gli elementi sufficienti per discernere la grazia e la provocazione che questa esperienza racchiude. Assistiamo così a molti innamoramenti che rimangono fuochi di paglia, perché l’incapacità di assumere il dono di quel momento impedisce che si generi un solido cammino di maturazione, mentre d’altra parte storie già sigillate dall’impegno matrimoniale, quando non tornano ad alimentarsi alla grazia di quell’inizio, diventano incapaci di perseverare. È dunque importante che i giovani siano aiutati a discernere bene nei loro vissuti affettivi, perché non si limitino puramente a registrare una risonanza affettiva di straordinaria intensità e a «consumarla», ma imparino a decifrare nei simboli di quest’emozione privilegiata una promessa e un compito ineludibile per la loro libertà. Accompagnarli e sostenerli in questo cammino è un’azione pastorale straordinariamente rilevante, non soltanto per il sostegno che si offre ad una crescita più consapevole, ma anche per la possibilità di illuminare il legame originario che esiste tra l’innamoramento e il mistero di Dio, perché, come dice il Cantico dei Cantici, l’amore è una «fiamma di Jahwè».
“Alzati amica mia e vieni”
«Una voce! Il mio diletto. Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline. Ora parla il mio diletto e mi dice: ‘Alzati, amica mia, mia tutta bella e vieni!’» (Ct 2, 8.10). Questi versetti notissimi del Cantico dei Cantici ci rivelano, con estrema finezza espressiva, alcuni tratti fenomenologici fondamentali del tema che vogliamo accostare, descrivendo l’innamoramento come un sussulto che risveglia le energie più profonde, il richiamo di una voce uguale a nessun’altra, l’avvicinarsi impetuoso di un incontro e l’invito ad alzarsi e a celebrare la gioia dell’intimità.
Si tratta, indubbiamente, di tratti pertinenti, perché davvero l’innamoramento ha la forma di un paradossale sussulto del desiderio che per un verso avviene a monte di ogni intenzione, ma per l’altro esaudisce un’attesa profonda. In questa condizione, l’innamorato/a ha allo stesso tempo l’impressione di scoprire qualcosa di nuovo, che lo fa essere come «fuori di sé» per la gioia, ma anche quella di trovare finalmente ciò per cui è fatto, come se finalmente arrivasse «a casa propria»; ha la sensazione di entrare in una specie di mondo «da sogno», ma anche quella di «svegliarsi» finalmente alla vita. E tutto questo accade per la presenza di un altro/un’altra, di fronte a cui ci si scopre in modo nuovo un «io».
L’immagine del richiamo di una voce che è come nessun’altra, mette bene in luce l’inconfondibilità di quest’esperienza con le altre relazioni affettive, amicali e parentali, rispetto a cui questa si caratterizza per un preciso tratto di esclusività. Mentre i legami significativi che sostengono e accompagnano l’esistenza sono molteplici, «quello» si distingue per il fatto di apparire con una destinazione specifica e unica «a me». In forza di questa destinazione, l’altro/a appare creato/a appositamente per me, così che il mio desiderio e la sua presenza realizzano una corrispondenza determinante non solo a riguardo di uno degli aspetti della vita (come quando si trova un lavoro che piace), ma a riguardo della vita nella sua globalità.
Per questo nell’apparire dell’altro/a si avverte un richiamo rivolto a tutto il proprio essere, che, attraverso il sussulto delle emozioni, mette in movimento le energie della mente e della volontà, la tensione a progettare e a decidere, la disposizione a guardare con nuova determinazione il futuro, perché esso si prospetta finalmente abitato da una presenza decisiva in vista di una vita degna e felice. L’avvicinarsi impetuoso dell’innamorato, «saltando per i monti e balzando per le colline», coincide così in certo modo con l’avvicinarsi del proprio futuro, che improvvisamente non appare più una stagione remota da attendere, ma un avvenimento immediato in cui entrare. Di qui la sensazione di ricevere un invito ad alzarsi, cioè ad uscire dalla situazione di attesa della prima giovinezza, e a venire, incamminandosi insieme verso la comunione.
L’esperienza del dono e il senso del vivere
Questi tratti fenomenologici, e molti altri che potrebbero essere aggiunti, convergono fondamentalmente nel configurare l’esperienza dell’innamoramento come un momento di grazia: qualcosa che si può soltanto ricevere come un dono, senza poterlo in alcun modo produrre o programmare. Questo carattere sintetico riveste un ruolo di eccezionale importanza, che mentre spiega il lieto spaesamento in cui si trova l’io innamorato, offre una chiave di accesso privilegiata all’individuazione del senso del vivere. Nella situazione dell’innamoramento, infatti, appare con particolare evidenza che il volto più promettente del reale non è riconducibile all’esercizio della nostra iniziativa, ma soltanto alla logica di un dono che ci precede e, rivelandosi, ci sorprende.
In una cultura molto sbilanciata verso una razionalità procedurale, che assume come criterio di valutazione più diffuso il rendimento e la funzionalità, il recupero di un approccio alla vita segnato da questa logica del gratuito costituisce una sfida educativa di notevole rilievo. E, coerentemente, l’introduzione nei cammini giovanili della tematica affettiva esattamente come vettore di «questa» intuizione, anziché come cifra di un romanticismo vago o di un moralismo ansioso, rappresenta un imperativo urgente per la pastorale: non soltanto per correggere un difetto epocale, ma prima di tutto per rispettare ciò che gli affetti sono.
È urgente, infatti, propiziare in ogni modo la riscoperta di ciò che a proposito degli affetti la tradizione cristiana ha sempre saputo e custodito, anche se non sempre proposto con uguale chiarezza, ovvero il fatto che il loro referente originario, il grembo sacro in cui si istituiscono e a cui rimandano, è Dio. Il mondo delle emozioni e dei sentimenti, che culturalmente è divenuto appannaggio quasi esclusivo di un accostamento psicologico, appena compensato da un vago alone di romanticismo, è infatti per eccellenza il luogo sacro di una risonanza che si impone come ciò che ci apparenta a Dio e ci rivela di esser creati a sua immagine.
L’origine e la grazia
Cerchiamo di approfondire brevemente questa intuizione, riferendoci alla coppia delle origini: l’Adam e la donna tratta dalla sua costola, di fronte a cui, in un grido di stupore, risuona la prima parola umana della Bibbia: «Questa volta essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa» (Gn 2,23). In queste parole dell’Adam originario sentiamo risuonare allo stato puro la meraviglia per la differenza che, distinguendo l’uomo dalla donna, dà finalmente un senso a tutte le altre differenze del creato. Prima della creazione di Eva, infatti, secondo il racconto genesiaco, l’Adam si trovava in mezzo ad un mondo molteplice, che egli ordinava con la sua parola, ma in cui non riusciva a trovare integrazione. Solo di fronte ad Eva, invece, egli scopre un’alterità che gli fa sperimentare la propria finitezza non più come un limite, ma come destinazione e complementarità. In Eva e solo in lei, l’Adam riconosce la «propria» carne: non puramente perché si trova davanti ad una persona paritaria, ma perché in lei si trova davanti a un dono, non programmato e non meritato. E per questo, pur senza poter dominare l’Origine di quella differenza, che è sorta mentre era nel torpore del sonno, egli è subito disposto a riceverla come una benedizione, in cui l’Origine divina si riflette.
Dio non è dunque una presenza ostile che si sovrappone dall’esterno alla tenerezza degli innamorati, ma è invece il mistero amico che personalmente si annuncia nel sussulto del loro innamoramento e si comunica nella letizia del loro incontro, a perenne ricordo per ogni coppia della storia. Le parole dell’io innamorato di Adamo sono dette non soltanto di fronte all’apparire di Eva, ma anche al cospetto di Dio; come d’altra parte le parole che Dio sceglie nella Bibbia per annunciare agli uomini il suo amore sono infinite volte quelle dell’innamoramento e della nuzialità.
La gratitudine, scuola degli affetti
Le riflessioni che abbiamo fin qui svolto si prestano ad offrire numerosi spunti pastorali, tanto a livello di intelligenza credente di ciò che avviene in due giovani che si innamorano, quanto a livello di suggerimenti pratici per accompagnarli ed aiutarli. Sarà appena il caso di rilevare che ciò non vale soltanto per i giovani che praticano i luoghi e le forme del discepolato del Signore, ma anche per quelli che non si riconoscono in un’appartenenza religiosa: il risvegliarsi del desiderio affettivo rimane per tutti un chairos prezioso e un’insostituibile intuizione della grazia e della benedizione originaria con cui il Signore accompagna il nostro vivere.
Nell’esplicitare questa verità e nell’annunciarla, sarà forse necessario riscoprire che la scuola in cui si impara la sacralità e la limpidezza degli affetti è l’esercizio umile e prolungato della gratitudine, e chiedersi quanto è presente questa preoccupazione nei nostri cammini educativi. Dove infatti l’atteggiamento della gratitudine non viene sviluppato, c’è da temere che si insinui quella logica dell’autorealizzazione che finisce per orientare la «cura di sé», anziché sulla via di un consegnarsi gratuito, su quella di un promuoversi interessato.
Questo può suggerire di verificare se ad esempio gli itinerari degli adolescenti non siano troppo sbilanciati su una conoscenza di sé concepita come un guardarsi dentro, senza che ci sia pari attenzione per le numerose figure della grazia e della gratuità che un giovane deve scoprire guardandosi attorno. La condizione perché nell’età dell’innamoramento il desiderio si risvegli non come cupidigia, ma come stupore e meraviglia, è un lungo tirocinio di gratitudine, che ha insegnato che vedere un dono non è soltanto vedere una «cosa», ma entrare in sintonia con un’intenzione.
E allo stesso modo, la condizione perché l’innamoramento dei fidanzati si conservi e annunci l’Origine divina da cui ogni amore proviene, sarà un esercizio quotidiano della gratitudine reciproca e verso il Signore, a cui bisogna pazientemente educare.
Di Don Andrea Bozzolo
Tratto da http://www.notedipastoralegiovanile.it
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