Filosofi e teologi si ritrovano (gennaio 2006) per discutere i confini di un sentimento che talvolta viene ridotto alla sua superficialità, mentre richiede l'esercizio delle tre virtù 'teologali' e una nuova visione del desiderio. Ecco alcuni brevi estratti degli interventi...«Amare significa, infine, affidare ad altri, all'altro amante, la cura di amarmi, senza me, senza la mia cura di me stesso. Difatti, finché non sono amato da altrove non mi conosco ancora. Non conosco che cosa sono. Finché, allora, un altro non mi conoscerà, io ignorerò me stesso».
del 12 gennaio 2006
L’amante vero dona per primo
di Jean-Luc Marion
 
Se ci atteniamo alla descrizione immanente del fenomeno amoroso in regime di riduzione, dove altri è inteso soltanto secondo un'accezione ancora indeterminata (dunque innanzitutto come un altro uomo), occorre riconoscere che ogni altra esperienza dell'amore sfocia nel fatto che ciascuno degli amanti rinuncia ad amarsi per amare innanzitutto - e questa è la prima intenzione - l'altro e ritrova soltanto così l'amore di sé - seconda intenzione.
Tre caratteri definiscono, allora, l'amore: la sospensione della reciprocità (contro l'egoità), l'atto di amare come sola conoscenza del bene (contro la teoricità) e l'abbandono dell'amore di sé ad altri (contro la naturalità).
[…] Quanto ci appare così, ossia, il fenomeno amoroso così descritto, può essere messo in opera? Possiamo incontrarlo in via? La risposta alla domanda chiederebbe che nei fatti possiamo riconoscere l'effettivo compimento dei tre caratteri del fenomeno amoroso ridotto a se stesso. Ora, possiamo, come sempre e come per ogni cosa, riconoscere il loro esser diventati effettivi in Cristo.
Amare significa amare per primo. Questo è quanto Cristo, per eccellenza, ha manifestato. «L'amore di Dio consiste in questo, non che noi abbiamo amato Dio ma che Dio ci ha amati» (1Gv, 4,12). In Gesù Cristo, infatti, Dio prende l'iniziativa rispetto all'amato, così come la sua Sapienza «…previene, per farsi conoscere, quanto la desiderano» (Sapienza, 6,13). E l'amante non pretende mai di farsi amare, come se fosse un suo diritto, imitando il modo in cui Cristo «…non considerò come un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio» (Filippesi, 2,6).
Amare significa anche fare l'amore, espressione con la quale intendiamo 'fare il bene' e conoscere il bene soltanto facendolo, senza presupporre una rappresentazione che lo preceda. Sicché l'amante non conosce il bene, come se questo fosse l'oggetto di una teoria, prima di compierlo. In tal senso soltanto diventa possibile conoscere l'amore di Cristo, «che supera ogni conoscenza» (Efesini, 3,19).
Amare significa, infine, affidare ad altri, all'altro amante, la cura di amarmi, senza me, senza la mia cura di me stesso. Difatti, finché non sono amato da altrove non mi conosco ancora. Non conosco che cosa sono, e «se qualcuno pensa di essere qualcosa, si inganna» (Galati, 6,3). In realtà io non creo me stesso, non mi faccio da me: «Che cosa c'è che tu no n abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l'avessi ricevuto?» (1 Corinzi, 3,7). Finché, allora, un altro non mi conoscerà, io ignorerò me stesso: Fino ad ora «Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto» (1 Corinzi, 13,12).
La mia vita consiste nell'amore che un altro ha nei miei riguardi e nel quale ritrovo me stesso più originariamente di quanto non mi trovi in me stesso. Apparirò dunque, a tutti e persino a me, soltanto quando questo altri stesso apparirà nella gloria: «La nostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo, la vostra vita, si sarà manifestato, allora anche voi sarete manifestati con lui ella gloria» (Colossesi, 3,3). «Noi fin d'ora siamo figlio di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1 Giovanni, 3,2). Ogni amore, dunque, si manifesta in Cristo.
 
 
La prova di tutto è la nostra fedeltà
di Jean-Yves Lacoste
 
Quando affermo che amerò, dispongo di un solo mezzo per evitare di cadere nella trappola del pio voto: non considerare l'affermazione come una profezia ma come un giuramento. E poiché nessuno può giurare ora su ciò che proverà domani, il giuramento dovrà essere inteso come giuramento di ciò che faremo e non di ciò che proveremo. Non possiamo con certezza dire che ameremo senza desiderare che questo amore corrisponda alla sua definizione più comune e che il suo ordine sia quello del cuore. Sappiamo d'altra parte, che tale desiderio può essere sempre frustrato. Niente mi rende certo che domani l'amata mi apparirà così come mi appare oggi. Niente, però, mi vieta di pregare perché le cose stiano così; e poiché non possiamo speculare sull'impossibile, il giuramento che ci lega e che legandoci mi vincola, dovrà essere per sempre considerato accessorio o, peggio ancora, come se si fondasse soltanto su ciò che abbiamo provato o proviamo ancora. Così come il fatto che Dio è di rado sensibile al nostro cuore non inficia assolutamente il fatto che gli siamo fedeli, allo stesso modo colei che 'amiamo' non deve continuamente commuoverci, né d'altronde lo potrebbe - tanto più che l'idea del provare per sempre la medesima emozione, del provare sempre lo stesso sentimento per un oggetto, da oggi e fino all'ora della nostra morte, sarebbe totalmente falsa. Quando, però, diciamo di amare Dio anche quando Egli non è sensibile qui ed ora al nostro cuore, siamo certi di non ingannarci. L'amore dell'uomo per Dio ci permette di comprendere meglio l'amore dell'uomo per l'uomo. Che senta o no la sua presenza, ho il diritto di dire che amo Dio. Posso 'pensare a lui amandolo' (secondo la definizione della preghiera del curato D'Ars) senza che quest'amore sia un'emozione. L'amata ci commuove ora, o ci ha commosso. Ma la sola cosa che possiamo fare è giurargli fedeltà. E in questa fedeltà non bisognerà vedere una sorta di sostituto dell'amore ma la sua prova.
 
 
Ma oggi è raro il passo decisivo
di Sergio Belardinelli
 
Da questo punto di vista, 'erotizzare' la famiglia significa farne il luogo privilegiato in cui l'amore si presenta in tutte le sue sembianze: uomo-donna, madre-figlio, padre-figlio. Di più. Bisognerebbe farlo in modo che in ognuna di queste sembianze, seppure con accenti diversi, vengano esaltate, nella loro unità, tutte le dimensioni dell'amore: la dimensione fisica, come quella sentimentale e spirituale. Ma è proprio questa unità incondizionata che fatichiamo a comprendere.
Un'occhiata anche solo superficiale alla storia dell'amore coniugale ci offre in effetti più di una conferma di questa nostra difficoltà, che è teorica e pratica insieme. Se l'epoca moderna ha concepito attrazione sessuale e attrazione spirituale, benevolenza e passione, eros e agape come aspetti che sembravano quasi escludersi e che potevano essere tutt'al più astrattamente sognati come presenti insieme - basti pensare alla fenomenologia della vita coniugale offertaci dalla letteratura; l'epoca postmoderna, la nostra epoca, sembra invece come intravederne il carattere, direi quasi, 'salvifico', per gli uomini e le donne ormai individualizzati, senza tuttavia riuscire a compiere il passo decisivo che renderebbe l'unità dell'amore veramente possibile. Magari senza volerlo, è un po' come se facessimo nostra la malinconia che sovrasta questa affermazione di U. Beck, con la quale vorrei chiudere il mio intervento: «L'amore diventa necessario come non mai prima e parimenti impossibile. La preziosità, la forza simbolica, l'aspetto seducente, liberatorio dell'amore cresce insieme con la sua impossibilità».
AA.VV.
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