Vivere non è necessario, ma se vuoi vivere è necessario viaggiare, navigare.... La vita, l'esistenza non è statica, ma estatica, non è etica, ma estetica. Il nostro cuore va dove trova tesori: “Dov'è il vostro tesoro, la sarà il vostro cuore”. Il mio segreto è oltre me, il segreto dell'isola è l'oceano, il mio viaggio a partire da me ma non per me, a partire da me ma non finisce in me.
del 19 novembre 2005
 
 
 
Il titolo che mi è stato chiesto di svolgere è il viaggio come metafora della vita. Allora io vorrei iniziare con una citazione in latino molto facile che dice: “Vivere non nocesse, navigare necesse est”. Cioè, vivere non è necessario, ma se vuoi vivere è necessario viaggiare, navigare. 
Due viaggi caratterizzano i racconti che sono all’origine della nostra cultura: il viaggio di Ulisse nella cultura greca e quello di Abramo nella cultura ebraica.
Per Ulisse il viaggio vero non è l’andata ma il ritorno a casa, Abramo invece parte per non ritornare. Il simbolo del viaggio di Ulisse potrebbe essere il cerchio che è finito, completo, perfetto, logico; dalla parte di Abramo invece non il cerchio ma il percorso di una freccia e dalla parte della freccia, che è quasi un simbolo della cultura ebraica, si incontrano molte partenze: quella di Abramo, quella del popolo nell’esodo, fino alla croce con le sue braccia che partono, si allungano e non sai dove arrivano.
Il cerchio e la croce, la logica contro il paradosso. Ulisse contro Abramo: sono i due modi di viaggiare.
Un viaggio è verso la memoria, all’indietro, un altro è verso il futuro, verso il nuovo che entusiasma ma anche un po’ spaventa per la sua incertezza. Comunque passato e futuro, memoria e speranza da tenere insieme per percorrere bene il viaggio della vita.
 
Una volta apparso sulla terra l’uomo è stato subito in viaggio: siamo tutti figli di nomadi. Come gli ebrei, anche i cristiani possono dire “mio padre era un arameo errante”.
Noi tutti siamo discendenti di quei nomadi antichi, una genealogia di pellegrini e viandanti perché il viaggio, ieri come oggi, risponde ad una cosa sostanzialmente: alla speranza di un mondo migliore.
Per il cacciatore o il raccoglitore del neolitico e del paleolitico, per il pastore e l’agricoltore del neolitico è la ricerca di un luogo con frutti o animali più abbondanti. Così più semplicemente per il turista alla ricerca di sole e di bellezza, per il pellegrino che vorrebbe lasciare a Lourdes il proprio male, così per il profugo, il rifugiato, l’emigrante.
Anche se oggi il viaggio è banalizzato ed è diventato soprattutto ludico, un vasto fenomeno di massa, si calcola che sono 800 milioni le persone che in un anno si muovono per turismo, resta una delle esperienze chiave della vita individuale e collettiva perché è un’esperienza di speranza.
Io credo che l’esistenza stessa è una realtà in mutazione e quindi un viaggio, la chiesa è una realtà in mutazione e la vita è fedele a se stessa non quando difende ciò che ha raggiunto, ma quando muta; così la chiesa è fedele quando muta. Aristotele diceva: ”La vita è nel movimento”.
Il flusso della vita come le grandi acque, erode le sue stesse sponde, cambia corso, crea isole, si acquieta in qualche ansa e poi riprende il corso: immobile è il cadavere, senza movimento è il non-vivo.
 
I tre momenti di ogni viaggio sono: PARTIRE, PERCORRERE, ARRIVARE.
 
PARTIRE: la mia vita non è raccogliere ne arrivare ma partire ogni giorno e seminare ad ogni stagione (Ernesto Lives)
Partire più importante che arrivare perché è così corroborante, tonificante sapere di appartenere ad un sistema aperto e non chiuso. La vita umana è la storia di una nascita e di un viaggio. Da vita a vita.
Ma la nascita stessa è un viaggio, il primo dei viaggi: un abbandonare il grembo materno per un altro luogo, le acque per un altro respiro, un venire al mondo, tagliare i legami, un’uscire alla luce e iniziare così a sperimentare libertà e incontri.
E ogni viaggio ci fa rivivere qualcosa della nostra nascita, ne ripropone gli elementi, per questo è così vitale e così bello. Viaggiare è un po’ come nascere di nuovo. Abbandonare un luogo limitato e uscire verso l’illimitato, tagliare anche solo temporaneamente i legami, i cordoni, uscire dal piccolo guscio ed entrare nel grande mondo, essere trasformati da qualcosa di nuovo. Fare incontri, lasciare le sicurezze, affidarsi anche a sconosciuti. Dipendere da altri. Si dice “partire è un po’ come morire”, ma io credo che partire è un po’ come nascere. Esperienza di verginità ritrovata; come diceva Davide Montagna: ”La verginità non si conserva, si riconquista”. Verginità è salpare ad ogni alba verso isole intatte. Allora la mia vita non è arrivare ma partire ogni giorno, seminare ad ogni stagione perché nel seminare c’è più vita che nel raccogliere, nel seme c’è più profezia.
La primavera, infatti, inizia con il primo fiore, la notte con la prima stella, l’amore con il primo sguardo, il fiume con la prima goccia d’acqua. Era così per i profeti, perché per loro la parola di Dio è più vera che non la sua realizzazione, così era per Abramo che ama Dio più delle promesse di Dio e quando gli chiede di sacrificare il figlio della promessa, è pronto a farlo. Così era per Paolo e gli apostoli che amano il Vangelo più dei risultati della predicazione, perché i primi risultati erano le persecuzioni. Così è per i mistici che amano Dio più delle consolazioni di Dio.
Non raccogliere ma seminare, riempire i solchi della vita di semi per semirare il domani: il futuro non si attende ma si genera e cosa troviamo alla radice del partire? Per prima cosa, alla radice del nostro partire, troviamo il viaggio di Dio.
La Bibbia lo possiamo leggere come un libro pieno di strade e di venti. Dio è il grande viaggiatore, da sempre in cerca dell’uomo, da quando nel giardino dell’Eden, alla brezza della sera, scendeva a conversare con Adamo e per la prima volta non lo trova. L’uomo si è nascosto. “Adamo dove sei?”. L’esodo di Dio mendicante d’amore, il suo vagabondare in cerca dell’umanità ha termine con l’incarnazione di Cristo. Gesù Cristo è l’esodo di Dio. Il grande camminatore, lui delle strade di Palestina che ha scelto come proprio nome la strada “Io sono la via” e che nell’Apocalisse svela il suo triplice nome “Io sono colui che è, che era e che viene”. Il veniente, l’instancabile camminatore che ha camminato fino alla tua porta e ora sta alla tua porta e attende che tu gli apra, solo allora entrerà.
Poi lo spirito, che ha preso come proprio nome e come simbolo quello del vento che non sai da dove viene e dove va, il vento che non lascia dormire la polvere (Turoldo), il vento che gira e rigira e sopra i suoi giri ritorna, come dice Qoelet.
Il vento che ha messo alla prova la fede di Giona, facendo inaridire il ricino sotto cui si era riparato, il vento sottile di Elia sull’Oreb, il vento che aveva soffiato nella fornace, salvando dal fuoco Daniele e i compagni, il vento che squassava la barca di Pietro e che Gesù fa ammutolire, facendo esclamare agli apostoli, chi è mai costui che il mare e il vento gli ubbidiscono. Il vento che ha fatto tremare la camera alta a Pentecoste. Il vento è il simbolo del viaggio, il vento che riempie ogni forma e passa oltre, che non ha una dimora fissa, nessuna forma è quella definitiva.
Il vento che spazza i fumi e diffonde i semi; il vento invocato sulle città a disperdere le polveri sottili, polveri di morte e a sostituirli con i pollini di primavera.
Questi sono i nomi di Dio perché la Bibbia è piena di vento e di strade ma anche uno dei nomi dei cristiani, uno dei primissimi nomi che i discepoli di Gesù di Nazzaret hanno ricevuto, che si sono dati e che ha preceduto quello che poi è diventato dominante, di cristiani, era “Quelli della via”, che significa:
 
I cristiani sono quelli che hanno una via da seguire, che non si sono smarriti, che sono usciti dal caos del labirinto. Sono quelli che non stanno fermi, che si pongono in via perché hanno una meta da raggiungere e per raggiungerla possiedono una rotta, una stella polare e qualche regola di navigazione;
Per i cristiani ogni terra è patria e ogni patria è terra straniera. Amici del mondo anzi, del genere umano.
I cristiani sono quelli della via perché non appartengo ad un luogo ma ad una ricerca, non appartengono ad una forma conclusa, ma ad una trasformazione e perciò non finiranno mai di andare.
 
Se poi veniamo nella storia più vicina a noi, gli ordini mendicanti come i Servi di Maria, i nuovi frati itineranti che sorgono nel 1200, che si oppongono all’idea dell’abbazia possente circondata da mura con i suoi granai e le sue cripte colme di frumento le prime e di reliquie di santi le altre, autosufficienti in tutti i sensi. Gli uomini della strada, invece, questo diventano i frati mendicanti, non gli uomini delle mura. Si fanno prossimi senza difese ad ogni uomo della strada e questo partire, scalzo come San Francesco, si opponeva all’ideale della città, circondata di mura come fortezza bene armata, capace di difendere il loro benessere immobile.
I frati itineranti non hanno più possessi, perciò a loro, da poveri non servono luoghi dove accumulare i beni né porte a chiudere i luoghi, né catene a sbarrare le porte, né guardie a difesa delle porte. La loro itineranza si oppone alla sicurezza murata, la libertà si oppone alla sicurezza murata delle abbazie, la mendicità alla ricchezza. Ed è vangelo: non preoccuparti del domani, di cosa mangerete, voi vivrete dipendendo dagli altri, vivrete se qualcuno vi vorrà bene. E avrà carità, avrà amore, come un figlio bambino vive perché è amato. Il neonato dice alla madre, io vivrò solo se tu mi ami. In qualche misura sono queste le parole dell’itinerante, del frate mendicante che si fida dell’amore e non porta né bisaccia, ne argento, né pane; sono come bambini, come neonati di un’umanità nuova. I viandanti dell’uomo nuovo.
Ecco: strada, nascita, novità, verginità. Anche la parola convento contiene questa stessa idea; contiene la parola “venire insieme”, convenire gli uni e gli altri insieme, verso una strada che porta al convenire cioè, all’andare insieme gli uni verso gli altri e insieme verso Dio.
Ma restiamo ancora un momento dentro la Bibbia, questo tessuto di strade e di vento: quando Gesù si presenta a Nazaret nella sinagoga e proclama la propria missione, una delle parole chiavi che egli usa è AFESIS, che è tradotto come perdono e libertà, liberazione. Parole così gradite ai nostri occhi e cosi care alla storia. Questo verbo (EFIASI) ????? è un verbo di moto, significa andare da un luogo ad un altro luogo; questa è la libertà e questo è il perdono. E’ un verbo di movimento, parla dell’energia che spinge in avanti, è il verbo che si applica alla nave che salpa, alla freccia che scocca, alla carovana che si avvia. Sa di vento, di futuro, di spazi aperti. Nella sinagoga di Nazaret allora, è l’umanità che si rialza, che prende il filo della corrente verso la luce della libertà, non per propria forza, ma per un seme di luce venuto altrove e Dio è suo vento.
Perdono non è rivolto al passato, non è il colpo di spugna sulla lavagna per cancellare le colpe, è rivolto al futuro. Perdono è un verbo al futuro, così come conversione; convertire è un verbo di movimento: girare la prua del cuore in un’altra direzione.
Applicato alla chiesa ci domandiamo quale sia il regime che la governa: non è assolutistico né democratico ma è un sistema sinodale, questa è l’intuizione del Concilio Vaticano II e sinodo è parola greca che significa “strada insieme”.
Allora è il camminare insieme, il convergere di coloro che sentono le stesse cose, è l’emblema del regime della chiesa ma, ciascuno nel suo vivere, non dovrebbe essere mai senza l’altro, sulla strada insieme, in un sinodo permanente, allora siamo cristiani.
 
Che cosa muove la nostra vita? Cosa fa partire?
La vita, l’esistenza non è statica, ma estatica, non è etica, ma estetica. Il nostro cuore va dove trova tesori: “Dov’è il vostro tesoro, la sarà il vostro cuore”. Cioè, la vita si muove per una passione non per coercizioni, non a colpi di volontà. E la passione che muove la vita, nasce da una bellezza. La passione per Dio nasce dalla scoperta della bellezza di Cristo. E’ la bellezza che crea attrazione e infine comunione. La bellezza è la madre di ogni comunione: questa è la forza che mette in moto la vita, che ci insegna a partire, è la forza del cuore.
L’esistenza non statica, ma estatica, uscire da se, dai piccoli perimetri del sangue verso il grande giro delle stelle, dal cortile di casa verso il ponte sospeso sull’abisso verso la patria grande che è l’uomo, che è il mondo. La vita però si muove per una passione, non per un dovere, non per coercizione, non per costrizione e la passione si muove per una bellezza.
Il viaggio vero che è una piccola estasi, nasce da una bellezza. Quando dico che la vita non è statica ma estatica, credo che facciamo un’osservazione facilmente constatabile: la vicenda umana si costruisce intorno a due assi, la storia evolve verso due direttrici: una cumulativa e una non cumulativa. Cumulativa è la scienza dove ogni acquisizione si aggiunge alle altre, l’economia, la tecnica.
L’asse non cumulativo è l’asse dell’amore, della poesia, della religione. L’amore che tu vivi oggi non è la somma degli amori fino qui vissuti, Mentre un idraulico di oggi è certamente più bravo di un idraulico del 1200, un poeta di oggi non è superiore a Dante.
Ci sono questi due assi della storia che hanno ruoli diversi: l’asse non cumulativo è quello che da speranza, una speranza vera nasce proprio dall’estasi, da ciò che è più della logica, ad es. la nostra speranza ultima è il ritorno di Cristo, l’escatologia: Cristo punto omega del cosmo verso cui tutto va e speranza che non nasce dall’accumulo della storia, ma dall’estasi e l’annunciazione è l’estasi della storia.
Viene ciò che l’uomo da solo non può darsi.
E anche il monachesimo in un certo senso è l’estasi della storia, lo è per la sua libertà di fronte agli uomini, alle chiese, ai potenti, libero anche davanti a Dio per la sua marginalità, per aver scelto il paradosso come regola di vita.
La domanda allora è: Cosa muove la mia vita? Lungo quale assi mi muovo? Cumulativo o non cumulativo?
 
PERCORSO: quali sono le regole del viaggio.
Un detto medioevale recita così: i virtuosi camminano, i sapienti corrono solo gli innamorati volano.
Prima regola. La vera molla che spingere a compiere in pienezza un’opera o un percorso è l’amore. Allora la prima delle regole del viaggio è proprio questo: solo gli innamorati volano.
La seconda regola la prendo da un racconto dei Chassidim.
Nelle terre dei villaggi orientali, abitati dai pii ebrei, quello era stato un inverno durissimo, il più gelido degli ultimi anni, e giunse la voce che tutti aspettavano e cioè che era stata fondata la città di Dio, il nuovo Eden. Tutti gli ebrei che desideravano entrare nel paradiso, dovevano mettersi in marcia verso il luogo designato. Allora gli Ebrei si mettono in viaggio per giorni e giorni attraverso il gelo: non volevano aspettare la primavera perché l’amore ha sempre fretta, non volavano, ma non potevano aspettare la primavera. Giunsero infine davanti all’angelo che custodiva la porta d’ingresso e che li passava in rassegna ad uno ad uno per vedere se erano pronti, degni di entrare. Così facendo si accorse di un problema: tutti avevano qualcosa che non era previsto. Allora corre da Signore e dice che tutti i Cassidim arrivati, avevano nascosto sotto il vestito una fiasca di acquavite. Il Signore dice di farli entrare lo stesso, ciascuno con la sua fiasca.
Il Signore comprende le nostre debolezze, sa che partire inizia con un dolore, come la vita e allora non disprezza le brevi gioie della strada, i piccoli conforti, Non fa come certi predicatori che hanno fretta di disamorarci del mondo.
Non dice via, l’acquavite non serve a niente, è un alibi un inganno, è segno che non avete fede; non dice, vi fa male, ma sorride e fa entrare nel paradiso ciascuno con il segno del suo pellegrinaggio e vede in quei sorsi di acquavite la fretta amorosa di chi non voleva aspettare ancora, non voleva aspettare la primavera. E’ l’impazienza di Adamo che affronta l’inverno.
La terza regola di navigazione è accontentarsi di tanta luce quanto basta al primo passo. Nessuno vede la conclusione del percorso, non la vede Abramo, Mosè; S. Giovanni dice “noi siamo come pellegrini senza strada ma tenacemente in cammino, con tanta luce quanto basta al primo passo”. Ma poi la luce si rinnoverà ad ogni passo.
Quarta regola: il cammino comporta degli errori. Lo vediamo nei magi che sono la metafora dell’anima terna dell’uomo che cerca. Sbagliano anzi, il loro camminare è pieno di errori: giungeranno alla città sbagliata, perdono la stella, parlano del bambino proprio con Erode, cercano un re e invece trovano un Dio. Il loro cammino è anche pieno dell’infinita pazienza di ricominciare, assicurando che il dramma non sono gli errori, ma arrendersi agli errori. Le parole più tipiche del cristianesimo cominciano con un prefisso, con una particella speciale, RI: risurrezione, riconciliazione, rinascita, rinnovamento, redenzione, che vuol dire acquistare di nuovo; la stessa parola religione comincia proprio con questa particella davanti, che significa di nuovo, un’altra volta, ancora, senza stancarsi, senza arrendersi e vivere proprio l’infinita pazienza di ricominciare.
Ma non giorni fotocopie di altri giorni ma passati al crogiolo di Cristo e del vangelo; il nostro deserto è cadere 7 volte ma rialzarsi otto volte, nell’infinita pazienza di ripartire.
E’ il Signore che agisce così con noi; dopo ogni tradimento riprende a cercare l’uomo, manda un altro profeta, accende un altro arcobaleno dopo ogni diluvio.
La quinta regola: ancora i magi. Camminano con i piedi per terra e con la testa nel cielo. C’è un bellissimo proverbio africano che dice: per tracciare diritti i solchi della vita, devi legare il timone del tuo aratro ad una stella”. Così è ciascuno di noi che lega il suo andare e venire sulla terra, il suo pellegrinaggio tra i volti e le persone, le cose, ad una stella cioè, ad un valore, ad un’ideale alto ad un senso che è oltre, ad una stella che dice che il mio segreto non è in me, è oltre me, perché un frammento di cielo compone come parte essenziale la mia terra.
Sesta regola, la leggerezza, amore per l’essenziale. Nel bagaglio leggero del vero viaggiatore, chi viaggia sa che più viaggia e più leggero è il suo bagaglio, impara a separare l’essenziale dal superfluo. Nel viaggio non puoi portare tutto, allora impari a distinguere tra necessario e accidentale, impari a fare l’elenco delle cose che contano davvero e l’elenco è così breve!
Settima regola. Chi è sazio vuol conservare i suoi beni, studierà come proteggerli sempre meglio, il benestante diventa automaticamente conservatore, non imboccherà nuove strade, non sarà in ricerca. E’ il bisogno che fa muovere, come il figlio al prodigo che ritorna perché ha fame o il desiderio, come l’amata del cantico che cerca un amato che non troverà, ritorna con i segni delle ferite ma ancora l’amore le fa dire “ti cerco” affascinata da qualcosa che tu solo hai e nessun altro può dare.
Il cammino nasce da una fame interiore, da una magrezza; solo chi ha fame di vita troverà Dio, solo chi ha fame di Dio troverà pienezza di vita.
L’ultima regola è un’immagine del filosofo danese Kierkegaard che dice così: succede a volte che la nave della nostra esistenza è in mano non al capitano, ma al cuoco di bordo e quello che è trasmesso dagli altoparlanti è il menù della cena e non la rotta e lo stato del mare” Cioè, le informazioni che ci accompagnano nel nostro viaggio sono spesso superflue, secondarie, effimere. Questo accade quando l’uomo viaggiatore si accontenta solo del menù, si accontenta di solo pane e non ha più bisogno di sapere dove sta andando, quando arriverà, se la nave è capace di affrontare l’oceano con sicurezza. Il primo passo per viaggiare bene è passare dall’esteriore all’interiore, dal superfluo, all’essenziale. Superfluo è ciò che va dalla pelle in fuori, essenziale è ciò che va dalla pelle in dentro. Ecco allora che la nostra nave non sia in mano al cuoco!
 
Ma quanti sono i percorsi?
Rabbi Bar supplicò il veggente di Lublì: ”Indicami un cammino universale al sevizio di Dio, che io possa predicare a tutti qual è il cammino per servire Dio”. E il maestro rispose: ”Non si tratta di dire all’uomo quale cammino deve percorrere, perché c’è una via in cui si segue Dio con lo studio e un’altra in cui lo segue con la preghiera, una con il digiuno, un’altra mangiando. E’ compito di ogni uomo conoscere bene verso quale cammino lo attrae il suo cuore e poi scegliere quello con tutte le forze”. Noi dobbiamo venerare ciò che è stato già fatto, ma non imitarlo. I padri hanno istituito ciascuno un nuovo servizio, ciascuno secondo la propria natura: uno quello dell’amore, uno quello della forza, uno dell’intelligenza, uno della bellezza; così dobbiamo fare noi, istituire del nuovo, ciascuno secondo la propria modalità e non fare il già fatto bensì quello ancora da fare. Con ogni uomo viene nel mondo qualcosa che non è mai esistito, qualcosa di primo e di unico infatti, se fosse già esistito un uomo identico a me, io non avrei motivo di essere al mondo. Ogni singolo uomo è una cosa nuova nel mondo e deve portare a compimento la propria natura nuova in questo mondo.
Ciascuno è tenuto a dare carne alla propria unicità e non a rifare quello che un altro ha già realizzato, nemmeno se fosse il più grande.
E questo è detto a noi che ci nutriamo di ripetizioni, di ridondanze, che cerchiamo continuamente conferme a ciò che già pensiamo, che leggiamo solo quelli che scrivono cose che ci piacciono.
Un giorno un rabbino disse al suo discepolo: ” Io non vorrei cambiare il mio posto con quello del padre Abramo, che cosa ne verrebbe Dio? Perché, vedete, nel giorno del giudizio mi sarà chiesto perché non sei stato te stesso? Non mi sarà chiesto perché non sei stato Mosè, Elia, Paolo, Pietro, ma semplicemente perché non sei stato te stesso. Questa è la prima domanda del giudizio di Dio. E questo significa che tutti hanno accesso a Dio, ma ognuno ha un accesso diverso, che Dio non è mai quello che può essere servito su di un unico cammino. Il cammino attraverso il quale un uomo avrà accesso a Dio gli può essere rivelato unicamente dalla conoscenza del proprio essere, se cogli il sentimento più profondo, il desiderio fontale, sorgivo della sua vita, ciò che muove l’aspetto più intimo del proprio essere. Se cogli quello, trovi la tua strada. La nostra autentica missione in questo mondo in cui siamo stati posti, non può essere quella di voltare le spalle alle cose, agli esseri che incontriamo e che attirano il nostro cuore al contrario, è proprio quella di entrare in contatto attraverso la santificazione del legame che ci unisce a loro, con ciò che in loro si manifesta di bellezza, di benessere di gioia. Anche la gioia che si prova a contatto con il mondo conduce, se la santifichiamo con tutto il nostro essere, e si santifica con l’intenzione pura del cuore, la gioia del mondo conduce alla gioia di Dio e nell’ultimo giorno, la seconda domanda che ci sarà rivolta nel giudizio sarà: “perché non hai goduto di tutte le cose buone e belle che io ho posto sulla tua strada?”
Qualsiasi atto naturale se santificato, conduce a Dio e la natura ha bisogno dell’uomo perché compie in lei ciò che nessun angelo può compiere, cioè santificarla e si santifica con l’intenzione pura del cuore e con la benedizione.
Allora ecco, infiniti sono i cammini, ognuno deve scoprire il proprio.
 
ARRIVARE-RAGGIUNGERE
Da una frase di Olivier Clement: “La vita altro non è che un pellegrinaggio verso il luogo del cuore”, per capire qual è il desiderio sorgivo dentro di te e poi seguirlo.
Arrivare, raggiungere qualcosa.
Dice Rubin, mistico dell’Islam: ” Oh uomo, viaggia da te stesso in te stesso, perché da simile viaggio la terra diventa purissimo oro”; perché la nostra meta non è mai un luogo, ma un modo diverso di vedere le cose, e la prima cosa da raggiungere è il nuovo.
Per una legge sociologica, il centro conserva, la periferia innova. Il nuovo viene dalle periferie e la periferia è la, dove io non sono, per cui è necessario mettersi in cammino. Allora la Bibbia è un po’ la nostra Odissea, il mare di senso in cui tuffarci perché in Dio si scoprono nuovi mari, quando più si naviga. La Bibbia è il nostro mare da navigare, però ogni giorno, quotidianamente, con disciplina e perseveranza. La lectio quotidiana è la nostra navigazione nel mare di Dio.
Io la vela, Dio il vento, diceva Norberto Bobbio.
Sciogliere le vele, catturare il respiro di Dio nella Bibbia; avvicinandoci alla parola di Dio noi facciamo l’esperienza che in lei c’è energia ma che al tempo stesso è già andata avanti e che la nostra vocazione è diventare vela, gente che accoglie il vento di Dio e poi si muove.
La seconda cosa da raggiungere è l’incontro.
Ciò che cambia la vita sono gli incontri, non idee, non cose dette, non lo studio..
Infatti, la Bibbia dice che il regno di Dio è simile a dieci ragazze che vanno incontro; semplificando, il regno di Dio è simile a della gente che sa incontrare.
Ogni uomo viene al mondo con una piccola fiammella sulla fronte, è un’antica parabola rabbinica, che non si vede se non con il cuore e che è come una stella che gli cammina davanti. Quando due uomini si incontrano, le loro stelle si fondono e si ravvivano e ognuna prende e da energia all’altra. Come quando si mette un ceppo sul fuoco, vicino ad un altro, la fiamma si ravviva e divampa.
L’incontro genera luce. Se un uomo resta privo di incontri per molto tempo, la stella che splendeva in fronte, piano piano si affievolisce fino a che si spegne.
E l’uomo va, senza più la stella che gli cammina davanti.
La nostra luce vive di comunione di incontri, condivisione. Gli incontri sono lo splendore della vita, il viaggio è per incontrare.
Verità. I cristiani sono coloro che fanno la verità nell’amore. La verità non è un fatto da possedere è un farsi, non è un dato ma un divenire, non facciamo la verità.
Verità altro non è che un errore in meno di ieri. La verità è sinfonica: il mio apporto, più il tuo, più quello degli altri e diviene un farsi progressivo e comune. La verità è sinodale, è davanti, oltre e non alle spalle. Non dobbiamo guardare solo quello che ci conferma, ciò che già sappiamo. La verità è un viaggio.
Lo stupore, si viaggia anche per lo stupore perché, come Gregorio di Nissa diceva, “le nozioni creano idoli, solo lo stupore crea qualcosa”. E lo stupore viene dagli incontri, dalla bellezza, dalla verità. IO credo che il compito urgente del cristianesimo, del cristiano, è reincantare la vita; la vita è troppo disincantata contro la tenaglia che stritola un pò la vita di oggi. Questa tenaglia che da un lato è il nichilismo, coloro ai quali non importa nulle,e dall’altro il fondamentalismo fanatico. Questa è la tenaglia e contro questa tenaglia che schiaccia, reincantare la vita. Dare incanto nuovo all’esistenza, fare assaporare la bellezza e la profondità e questo diventa possibile solo riscoprendo il senso del vivere, solo se la nave ritorna nelle mani del capitano. Ma cos’è acquisire fede. Significa acquisire bellezza della vita,acquisire che è bello sposarsi, che è bello aver figli, è bello essere frate, è bello avere amici, è bello dare, dissennatamente dare perché la vita ha un senso, perché la vita va verso una liberazione, va verso una soluzione positiva, ha uno sbocco luminoso, qui e nell’eterno.
Fede è un’offerta di solarità.
E l’ultima cosa si incontra, l’uomo e il suo oltre; per usare un’immagine di Wittgenstein: la fede ti conduce sul litorale di quell’isola che è l’uomo; l’uomo è come un’isola, ti accompagna lungo i confini finiti, definiti, ti fa vedere i promontori, le baie, le tue profondità, ti segna interamente, si ancora ai confini ma il tempo stesso ti mostra che proprio li, su quella costa dove termina l’isola, comincia l’oceano. Li vengono a battere le onde dell’infinito e dell’eterno, il viaggiatore che ha fatto il periplo dell’isola alla fine si accorge che la dove credeva che finisse l’isola, inizia l’oceano e ciò che credeva il confine, l’ultima spiaggia dell’isola, è invece lo stupore dell’inizio dell’oceano. L’uomo è l’inizio di Dio.
Il mio segreto è oltre me, il segreto dell’isola è l’oceano, il mio viaggio a partire da me ma non per me, a partire da me ma non finisce in me. A partire da me ma non per me, questa è l’estrema importanza del senso del nostro viaggio.
Concludo con una citazione di Turoldo, quest’uomo di cultura che si definiva un maniaco di Dio, che ha offerto l’immagine di cosa è un nomade dello spirito, che respira pianamente il soffio del mondo e il vento dell’anima che procede leggero verso l’incontro, dice: ”Sono vagabondo come il vento, libertà è il mio tempio e la mia casa, respirare è respirarti, vivere è rivelarti, amare è amarti, allora andremo leggeri nel vento, così varcherò l’ultima soglia, l’anima danzando”.
Ermes Ronchi
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