L'umile dimora del sacerdote sorge a pochi chilometri da Mosul, nel nord dell'Iraq. La città è stata liberata un anno fa, dopo che i miliziani del sedicente Stato islamico l'avevano conquistata nel 2014...
del 17 novembre 2017
L’umile dimora del sacerdote sorge a pochi chilometri da Mosul, nel nord dell’Iraq. La città è stata liberata un anno fa, dopo che i miliziani del sedicente Stato islamico l’avevano conquistata nel 2014...
Dalla porta socchiusa della casetta di padre Jalal Yako fuoriesce un inconfondibile profumo di caffè italiano. Lo prepara ogni mattina, dopo la consueta ora di preghiera. «Venite, accomodatevi», dice sorridendo. «Questa casa è piccola e un po’ in disordine, ma sono tornato da un mese soltanto è c’è ancora un gran da fare qui».
L’umile dimora del sacerdote sorge nel quartiere popolare dello Shiqaq, a Qaraqosh, cittadina a maggioranza cristiana, a pochi chilometri da Mosul, nel nord dell’Iraq. La città è stata liberata un anno fa, dopo che i miliziani del sedicente Stato islamico l’avevano conquistata nel 2014 costringendo alla fuga quasi sessantamila abitanti.
Abuna (padre, in arabo) Jalal vive accanto ai cristiani che hanno scelto di ritornare nelle proprie case, dopo tre anni di sofferenza e di esilio. «La mia missione è qui, tra queste persone in difficoltà», dice mentre sorseggia la sua tazza di caffè. «Non potevo abbandonarle. Questa è una zona molto povera e bisognosa, è proprio qui che il Signore ci ha indicato di restare», ripete lentamente e a bassa voce.
Padre Jalal Yako è un missionario della congrezione dei Rogazionisti di Messina. Fondata nella città dello Stretto da Annibale Maria di Francia nel 1878, la congregazione si occupa da sempre degli abitanti delle zone più degradate e malsane della città, cercando di migliorare le condizioni morali e materiali della popolazione attraverso scuole e orfanotrofi. Nel 2011, insieme a quattro sacerdoti, padre Jalal decide di iniziare una missione in Iraq, il suo Paese natale. «È la mia terra, sentivo che dovevamo aiutare questo popolo. Prima dell’arrivo di Daesh facevamo catechismo ai bambini, organizzavamo laboratori didattici con il legno e i colori, scuole estive e altre attività per la comunità, come il cinema all’aria aperta o i corsi di musica, ma oggi è tutto fermo. Serve tempo e tanto lavoro per ricominciare».
UNA CITTÀ LIBERA MA A PEZZI
Il sacerdote iracheno ha studiato e vissuto in Italia diciotto anni, ha il passaporto italiano ma, nonostante Daesh, ha scelto di ritornare e restare in questa zona disagiata, senza acqua ed elettricità, per assistere i poveri e i bambini orfani. Il rione è un cumulo di macerie, detriti, elettrodomestici e rifiuti. Le strade sono ancora trafitte dai colpi dei mortai e le fogne a cielo aperto esalano un tanfo nauseante. I fili aggrovigliati dell’elettricità sono collegati a generatori elettrici mal funzionanti e i tubi dell’acqua bucati inondano le stradine già fangose e sporche.
Quasi tutte le case sono bruciate o annerite. La totalità è stata saccheggiata dagli uomini di Daesh. Padre Jalal mostra i tunnel sotterranei scavati dai miliziani nelle case per scappare durante l’offensiva e la distruzione lasciata intorno. «Siamo scappati a piedi, la notte del 7 agosto 2014, quando Daesh era alle porte di Qaraqosh», ricorda. «Avevamo uno zaino in spalla e sentivamo i colpi di mortaio. Quasi tutte le famiglie erano già fuggite verso Erbil il giorno prima, ma io e un altro confratello siamo rimasti fino alla fine».
In città tutti conoscono padre Jalal. C’è chi si ferma a lamentarsi della mancanza di acqua, chi gli domanda un frigorifero nuovo, chi lo invita a pranzo. Da un minuscolo alloggio, recentemente ridipinto, si affaccia un’anziana signora che abbraccia una bambina di pochi mesi. «Siamo contenti di essere ritornati ma abbiamo dovuto ricominciare da capo per l’ennesima volta. Non è facile», racconta.
La maggior parte degli abitanti di questo quartiere è fuggita due volte: nel 2006, dopo le persecuzioni dei cristiani a Bassora e Baghdad, e nel 2014, quando Daesh ha conquistato la piana di Ninive e i territori a maggioranza cristiana. «C’è molta diffidenza e paura tra gli abitanti e lo capisco. I Peshmerga – le milizie curde – dicevano di non preoccuparsi, che ci avrebbero protetti, ma quando sono arrivati quelli di Daesh sono scappati. La stessa cosa ha fatto l’esercito iracheno. Dopo la liberazione da Daesh, questo territorio è conteso. Siamo stretti in una morsa, schiacciati: da una parte ci sono i curdi, dall’altra ci sono gli arabi. Entrambi dicono che ci hanno liberati e ognuno vuole qualcosa da noi. Quando si esce dalla città, iniziano i problemi», interviene il missionario.
UN TERRITORIO NEL CAOS
A ogni check-point abbondano milizie, bandiere ed eserciti. Il passaggio è difficoltoso. Gli arabi vengono fermati ai check-point curdi e viceversa. I villaggi cristiani sono presidiati dall’esercito iracheno ma alcuni sono stati conquistati dalle milizie sciite di Hashd al-Shabi che hanno comprato terre e case, appartenenti storicamente alla comunità cristiana. Benché molte famiglie abbiano scelto di ritornare, il numero dei cristiani nella piana di Ninive è drasticamente diminuito: da tre milioni, nel 1980, a 200.000 persone, nel 2015.
«Qualche volta i bambini chiedono se tornerà Daesh. Io gli dico di no. Non penso che Daesh ritornerà. Abbiamo paura che tornerà altro, magari con un altro nome, e non riusciremo a scappare. Qui non c’è più uno Stato. Ci sono eserciti, milizie e bande che pensano ai propri interessi e nessuno garantisce il più basico diritto umano. Siamo soli, nelle mani di Dio», confessa padre Jalal.
La sala accanto alla minuscola dimora di abuna Jalal è colma di scatoloni riempiti di giocattoli e vestiti, giunti dall’Italia, ancora imballati. Su una lavagna c’è scritto un versetto del Vangelo di Matteo. «Ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata deserta. Infatti, vi dico che da ora in avanti non mi vedrete più, finché non direte: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”».
Padre Jalal mostra le foto di quando abitava in Italia, della parrocchia, circondato da fedeli e dai chierichetti. «A volte mi sento solo, ma qui c’è ancora molto da fare», dice con un placido sorriso.
Sara Manisera
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