Il 90% delle diagnosi prenatali sulla sindrome di Down sfocia in un aborto che la legge chiama “terapeutico” ma che in realtà con cura proprio niente e sopprime il bambino con la sua particolarità.
Trisomia 21. E’ il nome che indica la più comune anomalia cromosomica nell’uomo, quella che dà origine alla sindrome di Down. Tutti i bambini che ne sono affetti hanno un cromosoma in più, il 21, nel loro genoma.
E' stato il genetista francese Jerome Lejeune che ha scoperto quella minuscola fantasia del DNA e che ha dedicato tutta la propria vita a trovare la cura della malattia. “Troveremo – diceva – è impossibile non trovare. E’ uno sforzo intellettuale molto meno difficile che mandare un uomo sulla luna”.
Eppure l’uomo sulla luna c’è arrivato. La ricerca sulla sindrome di Down ancora continua con difficoltà e con pochi finanziamenti.
Ma un motivo c’è. Purtroppo la nostra società ha deciso che questa sindrome ha già la sua “cura”. Cito da Wikipedia, che esprime freddamente ciò che avviene: “la sindrome di Down può essere identificata in un bambino anche prima della nascita con lo screening prenatale. Le gravidanze con questa diagnosi sono spesso terminate”. E corrobora l’affermazione con fior fiore di studi e ricerche internazionali.
Il 90% delle diagnosi prenatali sfocia in un aborto che la legge chiama “terapeutico” ma che in realtà non cura proprio niente e sopprime il bambino con la sua particolarità. Dovrebbe chiamarsi aborto selettivo, perché con esso noi scegliamo di impedire la nascita di bambini affetti da una certa malattia. Ma si sa, ormai anche il linguaggio è diventato un’opinione e non rispecchia più la realtà delle cose. Si pensi quale ipocrisia nel chiamare i bambini affetti da un handicap come “diversamente abili”, per poi proporre l’aborto come “cura” per non avere figli diversamente abili.
E’ quella stessa ipocrisia che ha messo in luce recentemente James Parker, coordinatore della XIV edizione delle Paraolimpiadi di Londra 2012. “In Gran Bretagna – dice – ciò che è sbalorditivo è l’aver potuto aprire al mondo gli occhi sulle doti e sul potenziale delle persone con disabilità. Comunque, le leggi nazionali discriminano in modo veemente e scioccante ogni nuova vita nascente che possa essere affetta, anche solo eventualmente, da handicap fisici, problemi genetici o tare mentali”, ossia “quella che attualmente viene etichettata come qualità della vita inaccettabile”.
Un bel coraggio, questo cattolico inglese, a parlare di “leggi anacronistiche e discriminatorie sull’aborto”!
Ancora oggi continuiamo a scarificare al mito dell’autodeterminazione assoluta della donna, il paragone della nostra società con l’antica Sparta, dove il figlio “se era deforme e poco prestante” veniva gettato dal baratro presso Taigeto, “poiché né per se stesso né per la città era meglio che vivesse uno che sin dall’inizio non era giustamente disposto alla salute e alla forza” (come ci ricorda Plutarco). Ed è sempre Lejeune ad osservare: “di tutte le città della Grecia, Sparta è l’unica a non aver lasciato all’umanità né uno scienziato, né un artista e nemmeno un segno della sua grande potenza. Forse gli spartani, senza saperlo, eliminando i loro neonati malati o troppo fragili, hanno ucciso i loro musici, i loro poeti, i loro filosofi”.
Ecco, anche noi ci stiamo privando di nuova umanità, anzi stiamo tradendo la nostra umanità nell’attribuirci il diritto di stabilire cosa è normale e cosa no, cosa è degno di vivere e cosa no, se un “mosaico”, ossia un bambino che ha solo un po’ di cellule trisomiche, rientri nei canoni oppure no, ma i canoni di chi?
“Stiamo tradendo lo scopo della medicina che è quello di curare e non di diagnosticare e selezionare”. Con queste parole Lejeune si è giocato il Nobel. L’illuminata società scientifica l’ha emarginato.
Credo che meritasse (e meriti) ben più di un Nobel!
Stefano Spinelli
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