Efesini 1,7-10Dopo aver fissato lo sguardo sulla persona del Padre e sul suo amore per noi nell' «Amato» l'Apostolo tratta direttamente dell'effetto di questo amore: l'opera di Cristo, la redenzione attraverso l'effusione del suo sangue sul Calvario, che opera la remissione dei peccati e realizza nella pienezza dei tempi il grande disegno del Padre.
del 01 gennaio 2002
Una delle meditazioni precedenti proponeva alla nostra riflessione la lunga preghiera di ringraziamento e di 'benedizione' che apre la lettera di San Paolo agli Efesini (1). Le numerose somiglianze di questa preghiera con una delle più antiche preghiere giudaiche ancor oggi in uso ci aveva permesso di precisare in quale senso il Nuovo Testamento rivelava che Dio è nostro Padre e noi figli suoi alla luce dell'invocazione «abbà, Padre», che lo Spirito Santo ci mette sulle labbra e che è la stessa usata dal figlio unico. I quattro versetti successivi ci aiuteranno a riflettere su qualche aspetto del mistero della redenzione particolarmente caro a San Paolo.
Dopo aver fissato lo sguardo sulla persona del Padre e sul suo amore per noi nell' «Amato» l'Apostolo tratta direttamente dell'effetto di questo amore: l'opera di Cristo, la redenzione attraverso l'effusione del suo sangue sul Calvario, che opera la remissione dei peccati e realizza nella pienezza dei tempi il grande disegno del Padre. San Paolo indica tutto ciò con un termine greco di cui la traduzione difficilmente può rendere appieno la ricchezza: la «riunione», la «ricapitolazione», il «riassunto» o il «compendio» di tutta la creazione terrestre e celeste, nel Cristo diventato la testa di un unico Corpo.
In lui, mediante il suo sangue, troviamo la redenzione, la remissione dei nostri peccati, secondo la ricchezza della grazia che Dio ci ha profuso con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il misterioso disegno della sua volontà, che nella sua benevolenza aveva prestabilito in lui per realizzarlo nella pienezza dei tempi: di riunir tutte le cose nel Cristo, tutto ciò che esiste nei cieli e sulla terra.
Secondo la preghiera giudaica, che sembra aver ispirato San Paolo, l'amore di Dio che eleggeva Israele si era manifestato nel dono della legge, il beneficio per eccellenza, sigillo ed espressione ad un tempo dell'alleanza che Dio stabiliva con il suo popolo: «Per merito dei nostri padri che hanno sperato in te, che tu hai istruito con i precetti di vita, facci grazia e istruiscici... Illumina i nostri occhi con la tua legge, fissa i nostri cuori nei tuoi comandamenti».
Per San Paolo, il dono di Dio, testimonianza del suo amore, non è una legge, fosse pure la più eccellente che si possa immaginare, ma la persona stessa di Gesù Cristo. Certo egli ringrazia Iddio di avergli fatto conoscere il mistero della sua volontà e più avanti domanderà che illumini i cuori dei destinatari (1,18); ma il mistero di questa volontà di Dio non si concretizza più, come nel giudaismo, non escluso quello qumranico, nella rivelazione di precetti, antichi o nuovi che siano, ma in una persona, quella del Figlio di Dio, divenuto uno di noi: incarnazione dell'amore del Padre che egli non viene solo a darei quale esempio, ma a comunicare a ciascuno di noi, cambiando i nostri «cuori di pietra» in «cuori di carne», secondo la profezia di Ezechiele (Ez. 36, 26).
Infatti nel Cristo la rivelazione dell'amore di Dio, evocata da San Paolo nei versetti precedenti, tocca un vertice che supera ogni aspettativa. Sicuramente il profeta aveva parlato lui pure, in termini non meno commoventi di Isaia 3, dell'amore di Jahvé per Israele; in particolare, come in un preludio delle parole del Vangelo, aveva mostrato Jahvé che di persona si mette alla ricerca delle pecore erranti e che riunisce il suo gregge disperso: «Così dice il Signore Jahvé: Ecco che avrò cura io stesso del mio gregge... lo farò pascolar le mie pecore e le farò riposare. Cercherò quella perduta, mi prenderò cura di quella ferita, guarirò quella ammalata» (Ez.34,11. 15-16). Ma l'Antico Testamento non aveva mai sospettato il mezzo che Jahvé avrebbe scelto per realizzare un tal disegno, né che l'amore del «Buon Pastore» sarebbe giunto fino al dono della vita per le sue pecore, fino ad accettar di subire per nostro amore la morte più atroce e più umiliante, la morte di croce.
Come riunire infatti di nuovo, nell'intimità della vita di famiglia delle tre Persone divine, quell'umanità che Dio aveva creato «a sua immagine» ma che, con la sua ribellione, era diventata la pecora errante lontano dall'ovile, senza speranza alcuna di ritrovare da sola il cammino o almeno di volerlo riprendere? Per riportarla a sé Dio Padre escogita in eccesso di amore e di rispetto - il rispetto è la delicatezza stessa dell' amore - un mezzo di redenzione che permetterà al genere umano di attuare l'impossibile: esso stesso, come il figliol prodigo o la pecora sulle spalle del Buon Pastore, ritornerà al Padre che non ha mai cessato di attenderlo e gli corre incontro per stringerselo fra le braccia.
A questo scopo manda il suo Figlio ad «abitare tra noi», «in tutto simile ai suoi fratelli ad eccezione del peccato» (Ebr. 2,17; 3,15), a prendere la nostra umanità non nella condizione privilegiata che era sua propria nel paradiso terrestre, ma così come era purtroppo ridotta dal peccato; un'umanità sottomessa pertanto a tutte le condizioni alle quali soggiaciamo noi, escluso il peccato, in particolare alla possibilità di soffrire e di morire, che San Paolo chiama «la somiglianza della carne del peccato» (Rom. 8,3). Così la nostra umanità in lui ritornerà effettivamente a Dio o, per usare un altro paragone caro a San Paolo (1) non meno che ai Padri, dopo essere stata vinta dal peccato trionferà essa stessa sul suo vincitore.
Venuto a condividere la nostra condizione di uomini peccatori e a vivere fra i peccatori, il Figlio di Dio ne accetta tutte le conseguenze: farà quella che si può dire l'esperienza umana del peccato, non, certo, commettendolo - cosa che del resto gli avrebbe reso impossibile quanto a noi il ritorno a Dio - ma sperimentando a sue spese fin dove può giungere l'egoismo dell'uomo peccatore in tutte le sue forme.
Già alla nascita conoscerà la durezza di cuore dei ricchi, insensibili all'indigenza di chi non trova un posto e deve rifugiarsi in una grotta e dare come culla a questo bimbo divino disceso dal cielo per salvarci una mangiatoia d'animali. Ben presto, se vorrà sfuggire alla gelosia e crudeltà di Erode, dovrà fuggire sulla via dell'esilio. Ma soprattutto durante la passione egli saprà per esperienza che cosa significa l'ingratitudine degli amici più cari, la viltà, l'invidia, la cattiveria, la malignità, l'odio: in senso proprio egli non solo muore per liberare l'umanità dal suo peccato, ma subendone il contraccolpo.
Orbene, meraviglia della sapienza divina! nel disegno misterioso del Padre non solo la morte del suo Figlio, ma ciascuna circostanza di questa morte conservata con cura dalla tradizione - tradimento degli amici, abbandono degli apostoli, ripugnanza istintiva della sua natura, condanna al supplizio della croce con tutta l'infamia che essa comportava, perché tale condannato passava per un «maledetto da Dio»(Gai. 3,13) - tutte queste circostanze sono ordinate a permettergli di compiere un atto di obbedienza e di amore tale che uno più grande non si possa immaginare.
In altre parole Cristo, ricevendo come ogni altra cosa questo amore del Padre, lo ha ricevuto in questo grado supremo in funzione e in dipendenza dalle circostanze stesse in cui il Padre lo ha posto: a circostanze eccezionali corrisponde necessariamente un amore, dono del Padre, esso pure eccezionale. Non è arbitrario pensare, per esempio, che senza il tradimento di Giuda Cristo non avrebbe ricevuto dal Padre questa qualità e questo grado particolare di amore che gli ha permesso di accettare il bacio dell' «amico che lo tradiva. E lo stesso si dica per ciascuno degli episodi della passione.
San Tommaso giustamente e profondamente spiega che se Dio, secondo la parola che San Paolo non ha temuto di usare, «non ha risparmiato il suo Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi» (Rom. 8,32), lo ha fatto «in quanto gli ha ispirato la volontà di soffrire per noi infondendogli l'amore» (2). L'Apostolo infatti vedeva in questo l'espressione per eccellenza della «carità di Cristo» che si preparava a celebrare (v. 35) o, più esattamente, della «carità di Dio nel Cristo Gesù Signore nostro» (v. 39).
È dunque l'amore di Dio Padre quel che ci strappa dalla tirannia di Satana e del peccato; ma un amore che in Cristo è divenuto umano, anzi un amore che in lui raggiunge la sua «consumazione», il suo «compimento» nel momento preciso in cui si abbandona alla morte per i suoi fratelli. Così si opera nell'umanità quella che l'Apostolo chiama la redenzione e la remissione dei peccati. Come al tempo della prima «redenzione», allorquando il popolo d'Israele fu liberato dalla schiavitù d'Egitto per divenire «popolo di Dio», così questa «nuova alleanza» è sigillata nel sangue; ma il sangue che Mosè sparse allora e sull'altare e sul popolo (Es. 24,5) poteva tutt'al più proclamare nel nome di Dio il legame ormai stabilito fra le due parti. Invece il sangue di Cristo, espressione del suo amore supremo, opera in realtà ciò che il sangue delle vittime animali poteva soltanto figurare: quell'atto d'amore che fu la sua morte «ricongiunge» effettivamente a Dio, «consacra»la natura umana che Cristo aveva assunta, la fa «passare» (3) dalla condizione carnale a quella spirituale.
Il misterioso disegno della volontà divina era di raggruppare in Cristo il gregge disperso dal peccato; o meglio, di fare della persona del Cristo incarnato, grazie alla sua morte e risurrezione, il «compendio» e come il «sommario» (in greco kephalaion) di tutta quanta la creazione, riunendo tutti gli esseri in lui che è divenuto il capo (in greco kephale) di un unico Corpo, affinché tutta la creazione, una volta raccolta nel Cristo morto e risuscitato, entri a sua volta «nella pienezza di Dio» (EI. 3,19). Allora «il Figlio potrà restituire il regno al Padre suo e Dio sarà tutto in tutti» (4).
[1]. Cfr. per esempio 1 Cor. I5,25-28. [2]. Summa Theologica III qU.47 art. 3. [3]. Questo è ciò che Giovanni chiama la sua «Pasqua», che infatti significa «passaggio» (Giov. 13,1). [4]. Cfr. 1 Cor. I5, 24-28; Ef. 1, 23.
Stanislao Lyonnet
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