Siamo sinceri: non è che un volgarissimo trucco questo di creare un'apparenza lontana e disumanizzata delle cose, unicamente con l'aver l'aria di non capirle mentre si capiscono benissimo...
del 01 gennaio 2002
«Siamo sinceri: non è che un volgarissimo trucco questo di creare un’apparenza lontana e disumanizzata delle cose, unicamente con l’aver l’aria di non capirle mentre si capiscono benissimo. Sarebbe come dire che gli uomini preistorici avevano la brutta e strana abitudine di spalancare la bocca ad intervalli e rimpinzarla di sostanze misteriose, quasi non sapessimo che cosa vuol dir mangiare. O come dire che i terribili trogloditi dell’età della pietra alzavano alternativamente le gambe con movimento rotatorio, quasi non avessimo sentito parlare di camminare.
Se con ciò si volesse risvegliare il nostro senso mistico e richiamarsi alla meraviglia del camminare e del mangiare, la fantasticheria potrebbe essere giustificata. Ma poiché si vuole uccidere il senso mistico e renderci ottusi alla meraviglia della religione, non è che ciarpame irrazionale: vuol trovare per forza qualche cosa di incomprensibile nei sentimenti che tutti comprendiamo.
Chi non trova misteriosi i sogni e non sente che essi giacciono sulle oscure rive del’essere? Chi non sente la morte e la resurrezione delle cose terrene come qualche cosa di vicino al segreto dell’universo? Chi non capisce che ci deve esser sempre il sapore di qualche cosa di sacro nell’autorità e nella solidarietà che è l’anima della tribù? Se ci fosse un antropologo che giudicasse queste cose remote e irrealizzabili, non ci sarebbe altro da dire a questo scientifico signore se non che il suo cervello è più ristretto e meno illuminato di quello dell’uomo primitivo.
A me sembra ovvio che soltanto un attivo sentimento spirituale avrebbe potuto rivestire di santità queste cose separate e diverse. Dire che la religione deriva dal timore di un capo o dal sacrificare alle messi, significa mettere un carrozzino finemente lavorato davanti a un cavallo primitivo. È come dire che l’impulso a dipingere venne dalla contemplazione delle pitture della caverna. In altre parole è come voler spiegare la pittura col lavoro dei pittori, o dar ragione dell’arte dicendo che è nata dall’arte.
Più ancora, è lo stesso che dire che quella certa cosa chiamata poesia è il risultato di determinate abitudini: come quella di comporre un’ode per celebrare l’avvento della primavera, o quella di un giovane che s’alzava, a una data ora, per sentire il canto dell’allodola, e poi scriveva le sue impressioni su un pezzo di carta. È verissimo che i giovani diventano poeti specialmente in primavera; è verissimo che quando, un tempo, c’erano i poeti, nessun mortale riusciva ad evitare che cantassero l’allodola.
Ma i poemi non esistevano prima dei poeti. La poesia non nacque dalle forme poetiche. Non si può dire che la prima apparizione di una cosa sia spiegata adeguatamente dal fatto che esisteva di già. Allo stesso modo non possiamo dire che la religione nacque dalle forme religiose, perché ciò equivale a dire che nacque quando già esisteva. Occorreva piuttosto una particolare forma mentale per trovare qualche cosa di mistico nei sogni o nella morte, come per trovare qualche cosa di poetico nell’allodola o nella primavera. Questa forma mentale è ciò chiamiamo lo spirito umano, quale è sempre esistito da che mondo è mondo; infatti, i mistici ancora meditano sulla morte e sui sogni, e i poeti cantano ancora le allodole e la primavera.
Manca invece il più piccolo accenno di simili sentimenti o associazione di idee dove manca lo spirito umano come noi lo conosciamo. La vacca che pascola in un prato non dà segno di provare alcun impeto lirico o di trarre alcun insegnamento poetico pur essendo in condizioni privilegiate per udire il canto delle allodole; come si può esser sicuri che le pecore che sono in vita non pensano menomamente ad utilizzare le pecore morte come base di un culto religioso dei defunti. È vero che anche il cane ha dei sogni, mentre molti altri animali pare che non abbiano neanche questo, ma è un fatto che noi stiamo aspettando da un gran pezzo che il cane sviluppi da questi sogni un elevato sistema di celebrazioni liturgiche.
Stiamo aspettando da tanto tempo che abbiamo smesso di aspettare: e come non speriamo più di vedere un cane fondare sui suoi sogni un’istituzione ecclesiastica, nemmeno speriamo più di vederlo intento a studiare i suoi sogni al lume della teoria della psicoanalisi. Insomma, per una ragione o per l’altra, tutte queste esperienze naturali, o sentimenti naturali, non passano mai la linea di separazione oltre la quale diventerebbero espressione creativa (come l’arte e la religione), se non nell’uomo. Essi non la passano, non l’hanno passata, con ogni probabilità non la passeranno mai.
Non che sia logicamente contraddittorio che noi vediamo i vitelli digiunare il venerdì o cadere sui ginocchi – come nell’antica leggenda – la notte di Natale. Non che sia impossibile in stretto senso che i vitelli, dalla contemplazione della morte, s’innalzino fino ad un salmo sublime di lamentazione sulla vecchia vacca defunta. Non è impossibile che essi esprimano le loro speranze di perfezione celestiale in una simbolica danza in onore della vacca trasmigrata nella luna. Può essere che il cane abbia accumulato tanti sogni da potervi costruire sopra un tempio a Cerbero, come ad una specie di trinità canina; può darsi che i suoi sogni abbiano cominciato a mutarsi in visioni suscettibili di espressione verbale, in una rivelazione della costellazione del cane come rifugio spirituale per i cani randagi.
Tutte queste cose sono logicamente possibili nel senso che è logicamente difficile provare quella negativa universale che chiamasi impossibilità. Ma tutto il nostro istintivo concetto del probabile – quel che si dice senso comune – deve ormai averci avvertito che, secondo ogni apparenza, gli animali non vanno evolvendosi su quella strada, e che, a dir poco, non è facile che ci diano qualche prova personale del loro passaggio dall’esperienza animale all’esperimento umano.
La primavera, la morte e i sogni, considerati come pure esperienze, appartengono a loro come a noi. Ma la conclusione è che queste esperienze, considerate come esperienze, non producono niente di analogo al sentimento religioso in nessun altro spirito, se non in uno spirito come il nostro.
Torniamo così al fatto dell’esistenza di uno spirito già attivo e solitario: unico capace di formulare un credo e di tracciare un disegno nella caverna. Gli elementi materiali della religione sono rimasti là per secoli come qualsivoglia altro elemento materiale, ma le possibilità religiose erano già nello spirito. L’uomo poteva già vedere gli enigmi, gli spiragli e le speranze che ancora vede. Poteva non soltanto sognare ma sognare sui sogni; non soltanto vedere i morti ma l’ombra della morte; e già era posseduto da quella misteriosa mistificazione che gli rende sempre la morte incredibile»
Tratto da L’uomo eterno [1930], trad. it. Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 62-66
Gilbert Keith Chesterton
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