La sofferenza di Dio

√â difficile credere in Dio quando Dio è un deserto. La solitudine con Dio calma. Ma la solitudine nella separazione da Dio brucia. La solitudine in mezzo agli uomini spesso è così insopportabile che si è pronti a tutto pur di sfuggirvi. [...]Allora Dio è Dio. Non lo è mai tanto come quando mi “manca”. Ma questo fa molto male. E fa molto male anche a lui. Soffre di farmi soffrire. Se mi ferisce, si ferisce...

La sofferenza di Dio

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Parlando di Kierkegaard, Kafka diceva: “La sua dimostrazione è accompagnata da un incantesimo. Si può evitare la dimostrazione per entrare nel mondo dell’incantesimo, come quello dell’incantesimo per entrare nel mondo della logica, ma si può anche soffocarli entrambi, in quanto sono diventati un terzo elemento, cioè l’incantesimo vivente, una distruzione del mondo che, lungi dal distruggerlo, lo costruisce”.

Questo terzo elemento, nel pensiero di Kafka, era senza dubbio la teologia mistica nella sua forma più negativa. Per noi, sarà semplicemente, dopo la riflessione e il suo superamento poetico, lo spontaneità ritrovata in modo naturale.

Per entrare nel Regno, bisogna somigliare ai bambini (Mt 18, 3), ma guardandosi dal dimenticare le parole di san Paolo: “Divenuto uomo, ciò che era bambino l’ho abbandonato”(1 Cor 13, 11). Lo spirito d’infanzia e il rifiuto dell’infantilismo sono ugualmente necessari.

É difficile credere in Dio quando Dio è un deserto. La solitudine con Dio calma. Ma la solitudine nella separazione da Dio brucia. La solitudine in mezzo agli uomini spesso è così insopportabile che si è pronti a tutto pur di sfuggirvi. In quel momento, Dio stesso è un rimedio estremo che si “utilizza” come “mezzo”. Non Dio, ma la sua immagine falsificata. E’ per questo che, rifiutando per me questa degradazione, egli sfugge. Il “mezzo” manca. Allora Dio è Dio. Non lo è mai tanto come quando mi “manca”. Ma questo fa molto male. E fa molto male anche a lui. Soffre di farmi soffrire. Se mi ferisce, si ferisce. Essere ferito dal dovermi ferire, è tuttavia la sua gioia. E’ il prezzo dell’unione. Se deviò dalla stazione silenziosa davanti alla sua assenza, oppure dall’adempimento senza slancio del mio compito di uomo, allora lo ferisco in un altro modo. Dal momento che soffre del male che mi fa per amore, soffre ancora di più del male che mi faccio per mancanza d’amore. Male in un altro senso, più temibile. Ma la sua beatitudine è inalterabile. “Dio non viene ferito da nulla, dice Angelus Silesius. Non ha mai sofferto, e tuttavia la mia anima può ferirlo al cuore”. Paradosso della trascendenza, che non devo smettere mai di affermare, e che si trascende da se stessa nella vulnerabilità dell’amore.

Il Padre e lo Spirito non erano affatto spettatori passivi del supplizio del Figlio. Il loro amore agiva attraverso l’assenza e il silenzio. Si tenevano a distanza e tacevano, per abolire ogni distanza ed ogni comunicazione che avrebbe impedito la perfezione dell’unione. Hanno sofferto di far soffrire il Giusto. Feriti dal doverlo ferire, la Pasqua e la Pentecoste testimoniano che per i Tre fu la gioia più alta, non di un lasso di tempo, ma eterna.

Lontano dalle vette, in quei luoghi vicini alle paludi dove la marcia è pesante e lenta, il deserto è intermittente. La ferita è leggera, presto cicatrizzata. La parte di gratuità è minima. La sofferenza di Dio è allora la sua pazienza. Essendo quello che sono, deve evitare di svuotarmi. Aspetta il momento giusto. E’ la “longanimità” – macrothumia – di cui parla san Paolo (1 Cor 13, 4).

Devo credere che “nell’avaro più freddo, nella prostituta e nell’ubriaco più sporco, ci sia un’anima immortale santamente occupata a respirare e che, esclusa dal giorno, pratica l’adorazione notturna”. Anche nell’uomo mondano, anche nell’affarista malvivente, egoista, vanitoso e complice tranquillo delle disuguaglianze insolenti, devo credere che ci sia “un punto sacro che dice Pater noster”. E’ più difficile che credere in Dio e nel suo Cristo. Se voglio pregare seriamente e senza condiscendere per tutti loro, devo pensare – qui la sincerità è una grazia – che non valgo più di nessuno di loro. Devo anche, con gli occhi della fede, “vedere” lo Spirito, che è in me, più me di me, che è in tutti loro, più loro di loro, gioioso e “rattristato” al tempo stesso (Ef  4, 30).

Che cosa significa “amare in Dio” coloro che “umanamente” non possiamo amare? Significa desiderare che in Dio aumenti la gioia e diminuisca la tristezza, e che allo stesso modo in me, a causa di Dio, venga alla luce la simpatia umana e l’antipatia cada nell’oscurità. A causa di Dio? Intenderei con questo il vecchio argomento che rimprovera ai cristiani di non amare gli uomini per quello che sono? Rispondo che gli uomini sono amabili in se stessi e per se stessi dal momento che il volto di Dio, che li crea a sua immagine perché gli somiglio, si illumina da gioia vicino a loro.

Le beatitudine che corrisponde alla qualità d’animo più nobile e più fine è la più alta e la più desiderabile. Ma la gioia d’amare, è anche sofferenza d’amare. La mia debolezza vorrebbe poter separare questa e quella, bandire la sofferenza e possedere la gioia. Non è possibile. In che modo la sofferenza sia in Dio una componente della beatitudine, io lo prego di farmelo intuire. Almeno come un profumo lontano, o come una debole nota che si diffonde dall’Eden, o come una di quelle “gocce della notte” di cui parla Gregorio Nisseno, che “bagnano lo spirito con i pensieri sottili e oscuri”. Sembra proprio che, nel più rovente dei deserti, i mistici, almeno qualche volta e per il tempo di un lampo, respirino quel profumo, ascoltino quella nota, sentano quella freschezza. E’ sufficiente perché desiderino solo Dio e di amare come Egli ama.

Quando Dio crea – eternamente per lui, in questo momento per noi – sa che il suo Rigoglio diventa deserto, il suo Bagliore notte, la sua Beatitudine croce. L’essenziale della spiritualità cristiana è vivere questo Paradosso nel dovere del momento presente. E si rischia di dimenticare proprio questo allorché, volendo essere cristiani, rifiutiamo di condividere il nostro pane. Il pane è un simbolo. Si tratta della giustizia. Ci sono casi in cui l’evidenza di ciò lo sforzo dell’intelligenza per conoscerne concretamente le condizioni è duro, complesso e lungo. La croce di Cristo è là. E’ bello cantarla liturgicamente, è più urgente non spostarla.

Dal Testo:  La sofferenza di Dio,  Parigi 1975.

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