'La Tigre e la Neve', di Roberto Benigni

La storia di un uomo che tenta di salvare la donna che ama tra le macerie dell'Iraq. Questo il tema de 'La Tigre e la Neve', il nuovo film del regista e attore toscano. Nelle sale dal 14 ottobre.

'La Tigre e la Neve', di Roberto Benigni

da Quaderni Cannibali

del 05 ottobre 2005

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Il conflitto iracheno raccontato con gli occhi della poesia. Così Roberto Benigni sceglie di rappresentare la guerra in Iraq, attraverso un poeta, padre di due figlie, disposto a tutto pur di salvare la propria donna, rimasta ferita a Baghdad. Si presenta su questa scia l’attesissimo film di Benigni, “La Tigre e la Neve”, che uscirà il 14 ottobre in 800 sale di tutta Italia.

 

Una pellicola drammatica registrata egregiamente come solo l’artista toscano può fare: una buona dose di riflessione, una storia d’amore mixata ad un pizzico di allegria, ed eccovi servita l’opera finale. Al centro del film, dedicato ai genitori di Benigni Luigi e Isolina, scomparsi recentemente, c’è un poeta, Attilio De Giovanni, interpretato dallo stesso Benigni, innamorato perdutamente di Vittoria, l’immancabile Nicoletta Braschi. Ed ecco riproporsi così la coppia vincente del pluripremiato “La vita è bella”.

 

Il film presenta un Benigni alle prese anche con due figlie adolescenti, alle quali insegna la bellezza della poesia. Una lunga storia d’amore con Vittoria, la Braschi, porta il poeta in Iraq, visto soprattutto in un sottoscala di quel che resta di un ospedale di Baghdad. Nei confronti della guerra il regista mostra un occhio più ironico che di critica feroce. Un mix di tragedia e farsa che sfocia in un finale che cerca le lacrime dello spettatore. Di rilievo la canzone di Tom Waits “You can never hold back spring”, interpretata dallo stesso cantautore americano, presente nella pellicola in quello che è un sogno ricorrente del protagonista.

 

La nuova pellicola è stata presentata ieri dall’attore-regista toscano, che l’ha definita in questi termini: “nè buonista nè ideologica. Ma arriva al cuore”. Difende così il suo ottavo film da regista. “Mi rendo conto – ha detto Benigni - che ci sono opere moderne documentaristiche che vanno alla testa. Il mio film va al cuore e spacca il cuore, entra nella coscienza e nell’anima contro la guerra. E’ un film anche feroce perché c’è la morte violenta. Non pretendo di essere Esopo, intendo far distrarre e commuovere perchè i film ci consolano”.

 

 

 

 

Tra i muri scheggiati di Baghdad un Benigni inatteso

 

Gigio Rancilio (da avvenire.it)

 

«La tigre e la neve» di Roberto Benigni non è un film sulla guerra in Iraq. E nemmeno - nonostante le tante citazioni e i volti dei poeti presenti - un film sulla poesia. Chi si aspettava fosse l'una o l'altra cosa rimarrà deluso. Si sentirà in qualche modo 'tradito' dall'unico film italiano che ha avuto il coraggio di toccare (pur con i toni della commedia) un argomento scottante come la guerra in Iraq, senza però cadere nelle trappole dell'ideologia. Tanto per capirci: per Benigni i soldati americani (che ne La vita è bella ridavano libertà al mondo oppresso dai nazisti) non sono diventati oppressori degli iracheni. Sono vittime come loro. Gente spaventata, che è lì più per bisogno che per fede politica.

La seconda scelta (a)politica - o forse transpolitica - di Benigni è di anteporre alla grande guerra in Iraq la piccola battaglia del suo personaggio, un insegnante-poeta capitato a Baghdad per salvare la donna che ama, caduta in coma dopo un incidente. Anche la sua è una guerra feroce. Che non guarda in faccia nessuno. E che ha momenti surreali, come quando Attilio-Benigni viene scambiato ad un posto di blocco per un kamikaze e, più tardi, fuggendo da un negozio dove ha rubato un paio di scarpe (lui, diventato misero tra i miseri) finisce in un campo minato.

Tutto, qui, è raccontato con le lenti della «pietas». Forse per questo alcuni hanno già bollato il film come «buonista». Altri scriveranno invece che ha 'rubato' qualche idea a Chaplin e qualcun altra al film «Parla con lei» di Almodovar. Diranno che cita Borges e Bunuel. E, magari, che Nicoletta Braschi (sua moglie) ha una recitazione monotona.

Ma «La tigre e la neve» non è un film per cinefili o per intellettuali. È una storia pensata per arrivarti dritta al cuore, sulla potenza, la follia, l'incongruenza e perfino gli errori dell'amore. Quello che ti fa fare gesti folli. E che ti butta fuori dai canoni del mondo. Ma che ti permette di sperare anche davanti ai peggiori orrori. Quelli che spengono la voglia di vivere persino ai poeti.

Proprio per questo «La tigre e la neve» è - a suo modo - un film molto politico. Un invito a sperare (come e più de «La vita è bella») sempre e comunque. Un canto di gioia alla bellezza del mondo che appare folle e stonato davanti alle notizie che ogni giorno arrivano dall'Iraq e non solo da lì, ma proprio per questo maledettamente necessario.

Il poeta Benigni non propone un happy-end (che nel film c'è solo a metà). Ci chiede di tornare a scommettere sulla potenza dell'amore e sulla forza della bellezza. Senza nascondere gli inciampi e gli errori, le fatiche e gli incidenti del vivere. E senza dimenticare che anche in Iraq, davanti all'incombere della morte, non rimane che pregare. Magari recitando come fa lui un Padre nostro rivolto al cielo di quella terra.

Per Benigni, sperare è un dovere civile. Per questo non bisogna farsi fermare o, peggio, travolgere dal cinismo oggi tanto di moda. Il peggio che vi potrà capitare sarà di passare per buonisti, come stavolta accade a lui.

 

 

Benigni «Il mio film è un inno alla vita»

 

L’attore-regista parla del suo nuovo lavoro «La tigre e la neve» che uscirà il 14 ottobre È la storia di un poeta che finisce a Baghdad per riuscire a salvare la donna dei suoi sogni.  «Solo poesia e amore possono farci superare l'orrore delle guerre L'ho ambientato in Iraq ma non critico i soldati americani: sono vittime anche loro»

 

Giacomo Vallati (da avvenire.it)

 

«No. La parola amore non ha un suono dolciastro. Al contrario: è il nome di ciò che muove il mondo». Entusiasmerà parecchi (e spiazzerà altrettanti) l'amore che Roberto Benigni ha riversato come suo stile, senza risparmio né paure in La tigre e la neve: il nuovo, attesissimo film del poeta di La vita è bella, che dal 14 invaderà 800 cinema italiani e (presumibilmente) i cuori del pubblico. Vivaddio: in tempi di desolato assassinio della speranza, ecco finalmente «un film che - come dice l'autore - è un inno alla poesia. Cioè all'amore per la vita. E proprio mentre cinema e letteratura attorno a noi non fanno che parlarci di morte».

Non teme, Benigni, d'apparire «buonista» a chi per professione fa il profeta di sventura; né accomodante a chi scambia i film per dei manifesti politici. Quando si seppe che la Tigre e la neve avrebbe avuto sullo sfondo la guerra in Iraq, molti sperarono in un film ideologico. Magari anti-americano. «Ma che quella guerra sia brutta lo pensiamo tutti. E sui soldati americani mandati a combatterla io non esprimo giudizi. Anzi - riflette alludendo all'intenso sguardo che il suo personaggio scambia con un giovane soldato yankee - li guardo con sentita pietas umana». Non solo: a chi avrebbe gradito esclusivamente una requisitoria anti-bellicista, «quello è un tipo di film che va alla testa - risponde ora Benigni - mentre invece il mio vuole arrivare al cuore. Io non credo che un film possa salvare il mondo. Però può consolarlo; magari divertirlo. Ecco quanto ho cercato di fare».

Ed ecco perché la Tigre e la neve - semplice storia di un poeta innamorato di una donna (Nicoletta Braschi) a un punto tale da inseguirla in Iraq e da salvarla contro ogni avversità, con la sola forza dell'ottimismo - «voleva essere semplicemente la storia di un amore. L'amore per la poesia, che poi è amore per la vita. E l'amore per una donna, che è quello per il mondo intero».

D ai primi fotogrammi (che con effetti digitali arruolano fra gli attori anche Montale, Ungaretti, Borges e la Yourcenar) alle struggenti immagini conclusive, il film fa dunque perno attorno alla poesia intesa come strumento d'amore. «Il protagonista, il professor Attilio, è un poeta (il che già è raro in un film); ma è bello che sia anche uno qualunque. Si trasforma cioè nel poetare. Perché gli artisti sono come i sonnambuli: in stato di grazia superano tutte le difficoltà, ma se li svegli diventano tipi qualsiasi».

Proprio nella poesia è il coraggio del film («il professor Attilio insegna anche cose dure, difficili: che per trasmettere la felicità bisogna soffrire, ad esempio, e che dunque non bisogna avere paura della sofferenza»); nonché il suo entusiasta messaggio vitalistico: «Non è un caso che il poeta arabo interpretato da Jean Reno, incapace di soffrire e incredulo di Dio, compia una scelta drammatica. Al contrario di lui, Attilio ha una voglia di vivere - esplode Benigni (secondo il suo stile) - che gli spacca il ventricolo destro della circumnavigazione sanguigna». E non è un caso - aggiungiamo noi - che accanto alla poesia molto spazio abbia (consapevole o meno) il sentimento religioso: «Pur non nominando mai Dio, Attilio si trova a pregare Allah. Che poi sarebbe Dio quando parla arabo. E lo fa recitando una preghiera che definisce bellissima, il Padre Nostro, in una scena che è una delle mie preferite».

Concludendo: «Guardando questo piccolo ometto catapultato in mezzo alla guerra, a combattere la sua guerra per salvare la sua donna, questa ci appare tanto più giusta ed eroica di quella. E la forza dei sentimenti si dimostra la più forte che esista».

 

 

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