La visione cristiana dell'uomo di mons. Caffarra

Lezione ai docenti universitari. « L'antropologia cristiana si regge tutta quanta su questi due pilastri: ogni uomo è una persona che esiste in sé per sé; ogni persona è costitutivamente in comunione con ogni persona...».

La visione cristiana dell’uomo di mons. Caffarra

da Teologo Borèl

del 20 dicembre 2005

La seconda fondamentale affermazione che la fede cristiana fa a riguardo dell’uomo, è che la persona umana è originariamente in relazione con le altre persone umane. Essa è di natura sua comunionale. L’antropologia cristiana si regge tutta quanta su questi due pilastri: ogni uomo è una persona che esiste in sé per sé; ogni persona è costitutivamente in comunione con ogni persona. 'Alla sua radice, si può immaginare la persona come un reticolato di frecce concentriche; nel suo schiudersi, se è permesso esprimere il suo paradosso intimo con una formula paradossale, si dirà che esso è un centro centrifugo. Per conseguenza si potrà anche dire, per magnificare la sua ricchezza interiore e per manifestare il carattere di fine che ogni altro deve riconoscerle, che una persona è un universo, ma sarà necessario aggiungere subito che questo universo ne suppone altri, con i quali fa un tutto unico' [H. De Lubac, Cattolicismo. Aspetti sociali del dogma, Jaca Book, Milano 1978, pag. 253].

Per cogliere questa verità antropologica procederò nel modo seguente. Dapprima mostrerò come essa sia generata nel pensiero cristiano dalla stessa professione di fede nei due misteri principali: la fede nella Trinità e nel Cristo hanno guidato la ragione umana a cogliere questa dimensione essenziale della persona. In un secondo momento mostrerò l’intima ragionevolezza di questa visione, facendo vedere come ogni ragione retta possa riconoscersi in essa. In un terzo momento vedremo quale è la forma originaria della comunione delle persone umane. In un quarto e ultimo momento cercherò di mostrare da quali insidie teoretiche questa visione oggi è minacciata nella cultura occidentale.

1 [Alle radici della verità]. Esiste un testo del Conc. Vaticano II di rara profondità a riguardo della persona umana. Esso dice:

'Il Signore Gesù quando prega il Padre, perché 'tutti siano una cosa sola come io e te siamo una cosa sola' [Gv 17,21-22] mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle Persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità. Questa similitudine manifesta che l’uomo, il quale in terrà è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé' [Cost. Gaudium et spes 24].

Nel testo ritroviamo le due affermazioni centrali sull’uomo: la persona esiste per se stessa; ed è l’unica creatura che può ritrovare pienamente se stessa nel dono di sé (agli altri).

Ma vorrei attirare la vostra attenzione sul fatto che il testo conciliare vede una 'certa similitudine' fra l’unione delle tre Persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità. Che l’uomo sia ad immagine e somiglianza di Dio è un tema classico e centrale nell’antropologia cristiana. Ma i grandi maestri del pensiero cristiano avevano posto la similitudine di Dio con l’uomo nella spiritualità di questi. Il testo conciliare la pone anche nella socialità, includendo questa come dimensione della persona che 'non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé'.

La luce che emana dalla rivelazione che Dio ha fatto del suo mistero, ha illuminato anche il mistero dell’uomo, conducendo questi ad una più completa e profonda conoscenza di se stesso. Nel senso seguente.

Il Mistero Trinitario è la coincidenza di una distinzione di cui 'maior cogitari nequit', la distinzione fra la tre Persone divine, con un’unità di cui 'maior cogitari nequit'. Il Mistero trinitario è massimo grado della distinzione nell’unità ed il massimo grado dell’unità nella distinzione. In esso pertanto la distinzione infinita si dà nell’unità somma, e l’unità somma pone la distinzione.

Nello sforzo teoretico che il pensiero cristiano ha fatto non per capire questo mistero, ma per professarlo con giustizia e rettitudine, ha elaborato un concetto di persona [divina] assolutamente nuovo: la persona [divina] è una relazione sussistente. La sussistenza, che – come abbiamo visto – è propria analogicamente di ogni persona, nella realtà della persona divina è una sussistenza totalmente relazionata. Esse in se nella persona divina consiste nell’esse ad alium.

Questo ha portato il pensiero cristiano a cogliere una 'certa similitudine' fra questa unità delle tre Persone divine e l’unità tra le persone umane, ponendo questa similitudine non nell’affermazione che queste sarebbero pura relazione sociale [il che sarebbe un grave errore metafisico], ma nella affermazione che la persona umana è costitutivamente relazionata alle altre persone, e che questa relazione consiste nel fatto che la persona 'non può ritrovarsi pienamente se stessa non attraverso un dono sincero di sé'.

Sarà compito del pensiero comprendere quale è il significato e il contenuto vero di queste affermazioni antropologiche: l’uomo è simile a Dio non solo in ragione della sua natura spirituale, ma anche della capacità sua propria di costituire comunità con altre persone.

Ciò che deve essere al centro della comprensione che l’uomo ha di se stesso è che la sua capacità di auto-donazione è dovuta al suo essere-persona; è inscritta nel suo essere persona. Operari sequitur esse: se l’operare della persona è il dono di sé ciò manifesta qualcosa circa il suo stesso essere. Veramente la fede cristiana impegna la ragione ad un faticoso lavoro di riflessione.

A questo punto si inserisce un altro percorso compiuto dal pensiero cristiano e che giunge alla stessa affermazione antropologica [cfr. H. De Lubac, Cattolicismo… cit. pag. 9-15], un cammino di carattere maggiormente storico.

La persona umana nella condizione attuale è una persona che vive contro natura perché vive nella divisione dalle altre persone. Orbene, la salvezza che la fede cristiana offre all’uomo consiste nel riportarlo nella sua verità, nella sua bontà originaria, cioè nell’unità interpersonale. Scrive S. Agostino: 'la misericordia divina ha radunato da ogni luogo i frammenti, li ha fusi al fuoco della sua carità e ricostituito la loro unità infranta…È così che Dio ha rifatto ciò che aveva fatto, ha riformato ciò che aveva formato' [In psal.58,10].

Il significato primo tuttavia di questa dottrina antropologica non è morale: essa non veicola il comandamento che gli uomini devono superare le varie divisioni. È antropologico. Non dice ciò che l’uomo deve fare, ma chi è: è un’unità nella distinzione delle persone. Tutti gli uomini sono un solo uomo. Quando la distinzione disintegra fino a spezzarla, l’unità, l’uomo è nell’errore e nel male.

La ragione ultima di questa costituzione della persona umana è nella relazione che ogni persona umana ha con Cristo. In forza dell’incarnazione del Verbo, egli si è in un certo senso unito ad ogni uomo. 'Assumendo una natura umana, è la natura umana che egli si è unita, che ha inclusa in lui … Intera Egli la porterà dunque al Calvario, intera la risusciterà, intera la salverà… e per ciascuno la salvezza, consiste nel ratificare personalmente l’appartenenza originale a Cristo, in modo da non essere respinto, separato da questo Tutto' [H. De Lubac, Cattolicismo, cit. pag. 13-14].

Esiste una profonda unità fra i due percorsi. La salvezza dell’uomo è Cristo perché in Lui si pone l’unità delle persone; l’unità delle persone umane è la verità loro ultima poiché l’uomo è l’unica creatura che voluta per se stessa, può ritrovasi solo nel dono di sé. Il nodo di congiungimento, dal punto di vista antropologico, è precisamente nell’affermazione che la natura propria della persona è una natura comunionale.

2 [Ripensando la persona]. Dobbiamo ora prendere per così dire in consegna questa luce che la rivelazione cristiana ha consegnato alla ragione perché la pensi, la introduca per così dire dentro al vissuto umano per scioglierne l’enigma. E’ quanto mi appresto a fare in questo secondo paragrafo. Più precisamente, cercherò di rispondere alla seguente domanda: che cosa significa che la natura della persona umana è una natura comunionale?

Che la persona umana sia socievole, è una convinzione che già l’antichità classica ci aveva consegnato. 'L’uomo è per natura un essere che vive in comunità' [Aristotile, Etica Nicomachea I, 7, 1097b, 12]; ed infatti 'nessuno sceglierebbe di possedere tutti i beni a costo di goderne da solo: l’uomo è infatti un essere sociale e portato per natura a vivere con altri' [IX, 7, 1169b 18-19]. È già intuita in una certa maniera la costituzione comunionale, amicale della persona umana.

Tuttavia questo stesso tema è registrato anche in un’altra maniera, secondo un’altra cadenza già iniziata nell’antichità classica. La naturale socialità umana non è pensabile come esigenza di non 'godere da solo' di una pienezza di beni, ma al contrario come bisogno di aver aiuto dagli altri. La persona cerca l’altro solo in quanto ne ha bisogno; è una ricerca utilitaristica alla fine. L’incontro inter-personale può realizzarsi solamente con contrattazione di interessi opposti o comunque non convergenti, fatta sulla base di un calcolo razionale fra il costo del vivere associato ed il beneficio che ne deriva.

Non possiamo, in questo contesto procedere oltre su questa linea, poiché mi preme maggiormente chiedermi quale sia la verità ultima della convivenza umana, come debba essere pensata la specifica unità fra le persone umane.

Due sono i presupposti per cogliere questa specificità: la persona è una sostanza spirituale; la persona è quindi capace di trascendere se stessa verso il vero.

Se negassi il primo presupposto, concepirei la comunità umana come una totalità nella quale la singola persona non avrebbe una consistenza propria. Che cosa significhi 'sostanzialità della persona' non lo spiego, avendolo già fatto lungamente nella prima lezione. La negazione poi della spiritualità significherebbe l’incapacità dell’uomo ad essere mosso da beni che siano tali per se stessi ed in se stessi, imprigionandolo in se stesso e come 'biologizzandolo', concependolo cioè come un animale sia pure superiore [o inferiore, secondo i punti di vista]. Le negazioni della sostanzialità e spiritualità sono complementari: negando infatti la prima viene soppressa la soggettività che sostenta la relazione, negando la seconda viene resa impossibile la relazionalità della persona.

Il secondo presupposto è ciò che immediatamente rende possibile la specifica unità delle persone: la sua capacità di trascendere se stessa in forza di quella trascendenza che è propria delle operazioni spirituali, la conoscenza e la volontà. È mediante la conoscenza che l’altro come altro è presente in me. È mediante la conoscenza che la persona trascende i propri limiti, varca i confini della propria identità ed in un qualche modo è anche l’altro essere. Ugualmente la volontà è capace di volere ciò che è bene in sé e per sé e non solo ciò che mi è utile o mi piace. Mediante il consenso al bene in sé e per sé, la persona trascende i propri bisogni e necessità; si eleva al di sopra della propria soggettività.

È evidente che se nell’uomo non esistesse questa capacità di auto-trascendersi verso l’essere mediante la conoscenza ed il volere, sarebbe impossibile una vera e propria comunione fra le persone.

Presupponendo quindi la sostanzialità della persona, e la sua capacità di auto-trascendenza, possiamo cogliere la vera natura della con-vivenza umana.

Da quanto ho detto nella prima lezione deriva che ogni persona umana è qualcuno di irripetibile, unico nel suo essere: in ognuno di noi l’umanità, la 'forma umana' si realizza un modo unico.

Ma è ugualmente evidente che in nessuna persona la humanitas si realizza in modo perfetto, esplicando tutte le sue potenzialità. L’individuazione per mezzo della materia impedisce che la 'forma humanitatis' si attui pienamente nel singolo.

'Il fatto che nessuno di noi sia un’espressione assoluta dell’essenza dell’uomo ha una conseguenza importante. Implica che l’espressione assoluta dell’uomo si ha solamente nell’unità degli esseri umani…: l’espressione assoluta dell’essenza dell’uomo si ha solamente nell’unità di essere umani perfetti' [S. Nash-Marshall, Il bene in quanto relazione, in Per una Metafisica dell’Amore, I.S.E. , Venezia 2005, pag. 293]. Già Tommaso aveva scritto: 'prima perfectio animae attenditur secundum suum esse naturale: quae quidem perfectio consistit in unione eius ad corpus… ultima autem perfectio eius est quod comunicat cum substantiis aliis intellectualibus; et illa perfectio dabitur ei in coelo' [Qd De Potentia q.3,a .10, ad 12]. Esiste una tensione in ogni persona umana verso questa unità, la quale [unità] è come la causa finale intrinseca ed ultima della storia dell’umanità.

È una tensione ed un orientamento insito nella natura di ogni persona umana, una sua inclinazione strutturale. L’umanità propria di ogni persona esiste in senso pieno quando realizza in pienezza le sue potenzialità, e ciò non può avvenire che comunicando all’umanità di ogni altro.

Ovviamente non è pensabile che questa 'communicatio in humanitate' si realizzi in una sorta di super-personalizzazione, in una totalità che annulli le singole persone. Non esiste un modo di essere più perfetto che essere-persona ma non si può essere-persona in senso perfetto se non nella comunicazione con le altre persone.

Di che natura è allora questa 'communicatio in humanitate'? quale è la specifica unità che lega le persone umane fra loro?

Essa è costituita in primo luogo dalla reciproca affermazione del valore trascendente – della dignità – della persona, confermando negli atti questa affermazione.

La scoperta, la consapevolezza della dignità singolare della propria persona comporta la scoperta della dignità di ogni altra persona. Nella scoperta della dignità, del valore della propria persona è implicata la scoperta del valore di ogni persona perché è la scoperta della verità della persona come tale. L’esperienza del sé ha anche un carattere oggettivo che ci consente di 'uscire' da se stessi e di incontrare ogni altro.

Mi trovo dentro ad una necessità singolare, ad un vincolo che è veramente unico. Vedendo la verità del mio essere-personale ed il suo bene proprio, per ciò stesso non posso non vedere la bontà propria dell’altro: negando questa per ciò stesso nego anche il mio valere di persona. Ciò che è dovuto a me da me stesso per rispondere adeguatamente alla dignità che è propria della mia persona, è dovuto esattamente ad ogni altra persona da parte mia. Il 'sì' detto a se stessi non può non essere che il 'sì' detto ad ogni uomo. È il significato più profondo del comandamento: 'ama il prossimo tuo come te stesso'. Non è possibile escludere nessuno poiché ciascuno è dentro a questa 'communicatio in humanitate' che consiste nella reciprocità del riconoscimento. Questa reciprocità è la relazione originaria intersoggettiva positiva. In altre parole. Esiste una relazione originaria interpersonale di segno positivo, che consiste nella presenza dentro all’affermazione della dignità della propria persona dell’affermazione della dignità di ogni altra persona.

È ben noto che esistono molte dottrine antropologiche che negano l’esistenza e perfino la possibilità di una relazione originaria intersoggettiva di segno positivo. Questa negazione è, a mio giudizio, l’esito logicamente necessario di una visione materialista dell’uomo. Ma su questo ritornerò più avanti.

Dunque, usando il linguaggio della filosofia classica, il reciproco riconoscimento è la 'causa formale' del rapporto originario intersoggettivo: ciò che lo definisce nella sua natura specifica.

Ma questo rapporto originario non è qualcosa di statico. Esso è come dinamizzato, messo in atto da una duplice intenzione: la benevolenza-beneficenza; l’unione con l’altro.

La bene-volenza consiste 'in quella tendenza alterocentrica, intenzionale e orientata alla persona, che desidera realizzare il bene dell’amato per tutto ciò che è importante in sé o bene oggettivo per lui e che richiede all’amante un consapevole e oggettivo superamento della propria immanenza, ossia della pura istintività animale o del proprio egoismo'. [P. Premoli-De Marchi, Uomo e relazione. L’antropologia filosofica di Dietrich von Hildebrand, Franco Angeli, Milano 1998, pag. 183].

La bene-volenza, ogni volta che le circostanze lo consentono, si esprime nella bene-ficenza: il volere il bene diventa fare il bene dell’altro.

L’unione con l’altro consiste nella condivisione della stessa forma o essenza umana realizzata. È la partecipazione alla stessa perfezione umana che si realizza nell’assimilazione dei valori o beni propri della persona. Si costituisce una relazione interpersonale consistente nella condivisione degli stessi valori in quanto realizzano le persone relazionate. Considerando il 'vertice' di questa unità, possiamo averne una comprensione più vera.

Il massimo della relazione interpersonale è quando essa è costituita dal dono di sé all’altro reciprocamente compiuto ed accolto. Tuttavia il 'sé' donato può essere più o meno realizzato umanamente, e quindi l’unione più o meno consistente.

mons. Carlo Caffarra

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