Non ho fatto niente di più che parlare di ciò in cui credo...
È importante ritornare all’essenziale. Quando non sono piene di Dio le giornate non hanno alcun senso. Vai a letto stanca e ti rialzi stanca, ti manca qualcosa ma non sai dire cosa. Invece per chi lavora nella vigna del Signore ogni giorno è speciale, un mistero che spesso può cambiare tutto. Non c’è impegno più importante che amare Te Gesù, come ci insegna santa Teresa di Lisieux: “O Gesù, qual gioia per me amarti. Perché, Gesù, mia gioia è amare te”.
È con questa certezza nel cuore che ho condotto la mia professione fino ad oggi. Trent’anni di onorata carriera a servizio dei giovani, come insegnante di religione. La mia ora spesso è sentita da loro e anche dai colleghi, come un tempo di pausa tra una materia e l’altra, una voce che si accoda e non fa testo. Per molti non ha peso nemmeno in Consiglio e invece io mi accorgo ogni giorno che quello che ho da dire ai ragazzi è il migliore degli insegnamenti che la Scuola possa offrire.
Per questa ragione voglio raccontarvi un’esperienza, l’ultima in ordine temporale che il buon Dio mi abbia concesso di vivere. Mi sono trovata a dover coprire un’ora in una classe perché la mia collega non c’era. Una supplenza come tante altre, una di quelle coincidenze che sembrano il frutto di una casualità e che invece sono sempre l’incedere nascosto di Dio su questa terra. Ci sono andata senza il materiale che porto di solito con me e mi sono ritrovata di fronte una classe di ragazzi di 17 anni, qualcuno anche ripetente. Erano stanchi ma pur sempre arzilli e pronti a fare confusione. Abbiamo cominciato a parlare e non so nemmeno come, non sono stata io a cominciare e forse neppure loro, le parole spesso iniziano ad inseguirsi correndo dietro l’anelito dello Spirito di verità ed eccomi improvvisamente bombardata di domande: qualcuno voleva la ‘prova’ dell’esistenza di Dio, e giù con tutte le altre domande dal creazionismo all’evoluzionismo. Dal perché dover andare in chiesa al come fa ad essere vergine la Madonna. Sono diventata molto “esperta” in fatto di dibattiti, non era certo la prima volta quella, ma mi capita sempre di avere paura, di non sentirmi all’altezza. Sento dentro di me che quelle domande non sono un caso, che rappresentano la profonda e inquieta sete di Dio che i giovani si portano dentro.
Io ci provo e do loro solo quello che so e quello che vivo ogni giorno a contatto con Gesù. Non ricordo le parole che ho usato, ma qualcosa nel tono della mia voce o forse nel mio sguardo deve averli convinti. Mentre alla lavagna faccio lo schema, il gesso mi procura un po’ di tosse, un ragazzo allora mi dice: “Usate la lavagna magnetica”. Un semplice suggerimento, una premura involontaria che tuttavia mi ha toccata perché mi ha rivelato l’interesse umano nascosto dietro il ruolo istituzionale che ci accomunava. L’ora è finita, forse anche troppo presto e io mi riscopro sorpresa e lusingata perché i ragazzi non vanno via, restano intorno a me, qualcuno mi chiede: “Chi vi ha mandata? Come siete arrivata da noi? Quando ritornate?”. Una di loro prende il numero del mio cellulare è così felice della lezione che piange mentre mi abbraccia. Non so perché pianga, vorrei chiederglielo e poi mi accorgo che non lo sa nemmeno lei, che le mie parole hanno soddisfatto bisogni che forse neppure sapeva di avere. Abbiamo parlato di aborto anche se io preferisco chiamarla vita. Sì, abbiamo parlato della vita e di come spesso si arrivi a soffocarla nel grembo credendo di fare una cosa giusta. I collaboratori dovevano pulire quando ho lasciato l’aula e sono andata a prendere la macchina nel parcheggio, li ho ritrovati tutti giù. Uno di loro mi ha gridato: “Grazie prof… grazie…” e per poco un libro non mi cadeva per terra. Non ho fatto niente di più che parlare di ciò in cui credo, in fondo io sono solo un’insegnante di religione.
Elisabetta Cafaro
Versione app: 3.25.0 (f932362)