Lennon, la star condannata a non morire

Fu un grande cantante e un grande autore ma gli elementi della sua arte erano la paura e la disperazione dell'uomo. Vide in anticipo il mondo moderno che allora stava formandosi, ma il suo mito rimane tragico...

Lennon, la star condannata a non morire

da Attualità

del 07 dicembre 2005

Il fatto che dopo un quarto di secolo siamo ancora qui a parlare di John Lennon non è cosa da poco. Perché proprio John Lennon? Come dire: perché proprio Pier Paolo Pasolini? Ci sono autori che parlano così bene attraverso le loro opere che la loro persona ha il privilegio, una volta morta, di morire bene, completamente.

Mi viene in mente Tom Jobim. Ma potrei dire anche Carlo Emilio Gadda. Artisti che si sono espressi pienamente attraverso la loro arte. Jobim, morto una quindicina di anni fa, ha scritto alcune delle pi√π grandi canzoni del XX secolo.

Anche John Lennon ci ha dato alcuni capolavori, come Ticket to ride, come Help, come A Day in the Life, come Come together, come Jealous Guy, e mettiamoci pure l'amata/odiata Imagine, vertice del jingle ideologico.

Ma altri, a cominciare da Paul McCartney, hanno fatto forse anche di meglio. Comunque, non è questo che conta. Conta il fatto che gente come John Lennon è condannata a non morire: non perché sia diventata immortale, ma perché la loro mortalità deve continuare indefinitamente, quaggiù. Infra i mortali.

John Lennon fu un genio? Sì, perché vide completamente il mondo che si stava realizzando, che noi vedevamo realizzarsi a poco a poco. Lui ne tracciò in anticipo l'intera parabola. Era un mondo orribile, che Lennon vide benissimo, anche se poi quello stesso mondo gli diede ricchezza, successo, fama, stordimento, India e, alla fine, una donna che gli offrì la possibilità di rovesciare la sua visione infernale in visione beatifica. Ma fu sempre la stessa visione. Dice una leggenda metropolitana, cui qualcuno però attribuisce valore, che Lennon, da ragazzino, dormisse con la madre. Qualcuno si spinge oltre, morbosamente, inutilmente.

Gli elementi dell'arte di Lennon sono la paura e il grido disperato. Help è la sua sigla, il suo segno profondo. Gli mancò il padre, nella vita e nell'arte, e si sente benissimo. Un padre che l o introducesse al mondo, insegnandogli, a poco a poco, ad accettarlo e amarlo. Nessuna paternità per il giovane John, ma una madre con la quale dormire. John voleva rientrare nella condizione di non-nato, e io credo che l'incontro con Yoko, i famosi bed-in pacifisti, il parto di Imagine si debbano leggere in questa chiave.

Se pensiamo il mondo descritto da Imagine come un mondo prenatale, il contenuto della melensa canzone diventa un po' più interessante e meno trombone. E la disperazione (dalla quale sembrerebbe essersi salvato grazie alla sua compagna giapponese) resta intatta. Non più il vagheggiamento di un mondo che non c'è, ma la reiterata dichiarazione dell'invivibilità di questo mondo.

E così torniamo a Help. Il suo mondo è quello. E resta quello anche al tempo delle immersioni nella droga, quando un sentimento di prigionia (I'm the Walrus) si alterna a visioni inquietanti, a serenità fosforescenti (Lucy in the Sky with Diamonds, Strawberry Fields forever). Insomma, la sua utopia è e resta figlia di una disperazione, di un buio senza uscita.

Lennon non era pigro, la sua disperazione era di tipo attivo, macinatore di musica, idee, lsd, tutto. Un suo grande merito fu quello di indirizzare l'enorme talento di Paul McCartney lontano da una certa tendenza alla dissipazione e alla stupidità. Dietro molte splendide canzoni di Paul si avverte il pungolo di John.

Spesso, poi, ci si dimentica di dire che Lennon fu un grande cantante, uno dei maggiori della storia del pop. Il suo strazio acido è - se facciamo la fatica di liberarci dell'icona-Beatles e di ascoltarlo come se fosse la prima volta - una grande esperienza musicale. Ascoltate She 's leaving Home dove la seconda voce di John distrugge letteralmente il solista Paul.

Ma, ma, ma: Lennon è tutto un 'ma'. Nel suo cammino di sublimazione del suo fondo nero, Lennon divenne uno degli ideologi della droga. Non so se se ne accorse, credo di no. Ma quello che è certo è che la droga non si sarebbe mai diffusa, non sarebbe mai entrata nel vuoto di valori e di motivazioni che il nostro mondo andava scoprendo in sé, senza un'ideologia che facesse passare il suo uso come una pratica di liberazione. Esiste, in proposito, un'interminabile letteratura, tutta pessimista e in gran parte orientaleggiante. Da Kerouac a Ginsberg a Lennon. Erano, del resto, gli anni della riscoperta del filosofo pessimista Schopenhauer, che aveva letto le Upanishad e i Veda, e predicò, come unica possibile salvezza, la non-volontà, l'abbandono del mondo (che è il prodotto della nostra incessante brama - quella che Nietzsche avrebbe poi chiamato «volontà di potenza»).

Chi sta molto in alto, il più delle volte vi si trova non per pieno merito ma per un concorso di circostanze. Questi uomini compiono azioni spesso destinate a lasciare profondi segni nella storia, anche se sono pochi coloro che sanno prevederne le conseguenze, o valutarle con esattezza. Lennon seppe prevedere quelle conseguenze, ma forse il nulla che si portava dentro gli impedì ogni valutazione. Per lui, il mondo fu e rimase sempre uno spiacevole esito del caso.

Luca Doninelli

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