Parlo con lei che vuole fare questo lavoro: ho un paio di cose da dirle...
Caro professore, parlo con lei che è appena uscito dall’Università e vuole fare questo lavoro: ho un paio di cose da dirle.
Scusi se uso un epiteto così poco formale, caro, come se stessi parlando con un amico, ma ho sempre pensato che ci dovesse essere un certo rapporto tra l’educatore e l’alunno, di rispetto senza dubbio, ma anche di fiducia. Fiducia, una parola un po’ strana di questi tempi, vero? La usano un po’ tutti ma non sembra che ce ne sia tanta in giro, eppure è normale che la usi con lei, non crede? In fondo lei deve istruirmi, se non mi fido di ciò che insegna, come posso imparare qualcosa?
Inutile girarci intorno, lei dovrebbe essere un punto di riferimento per la sua umanità, il suo sapere, la sua maturità, dovrebbe essere colui dal quale andare quando c’è un problema di cui non vogliamo parlare ai nostri genitori e quando i nostri amici non sanno come soccorrerci, dovrebbe aiutarci a crescere.
Sarò banale, ma non è un professore solo in virtù di quel pezzo di carta che, forse, ha appeso in casa come il più grande dei trofei, così come noi alunni non siamo solo i voti scritti sul registro.
Non siamo solo i voti scritti sul registro.
Se lo ricorda, professore? Si ricorda com’era quando sui banchi c’era lei, a trovarsi davanti persone distanti che non le facevano sviluppare le sue capacità, impedendole di diventare ciò che sarebbe potuto diventare? O ricorda com’era solo durante i compiti in classe o le interrogazioni? Sarò una sognatrice, un’illusa, ma mi hanno sempre ripetuto che per fare il professore ci vuole una vocazione, che non basta spiegare le quattro cose scritte sul libro per meritarsi questo titolo.
Chissà com’è dall’altro lato, quando entra in classe e vede venti, trenta persone che si affidano a lei e alla sua conoscenza, chissà cosa vede quando entra in classe!
Che poi, professore, noi ce ne accorgiamo, sa? Ce ne accorgiamo di cosa pensa, se è felice, se è nervoso, se non gliene frega niente, se ha litigato con sua moglie o suo figlio ha preso un’insufficienza.
Torniamo sempre là, alla fine: voti, voti, voti. Sembra quasi che noi ragazzi esistiamo solo in virtù di questi.
Non mi fraintenda, sono importanti, servono, e chi dice di abolirli non ha capito niente; eppure i voti sono solo dieci e per certe persone sono ancora meno. Come può valutare tutti con così poco margine, come può decidere quanto vale qualcuno con così poco spazio di manovra? Sento dire che dietro ad ogni voto c’è una storia diversa, che un 6 non equivale a un altro, ma allora perché sono entrambi 6?
Ma sto divagando, caro professore, perché – come ho detto prima – noi non siamo voti, anche se ce lo dimentichiamo o ce lo fanno dimenticare, e anche se un po’ di rabbia ci sta, non è questo il punto.
Ha un compito e un ruolo molto più rilevanti e forse non ci pensa nemmeno quando entra in classe, forse non vuole pensarci, forse lei decide di ignorarlo. Il suo compito è darci dei valori, farci sviluppare idee, passioni, indicarci che tipo di persone essere per il futuro.
Fare il professore, secondo me, è il mestiere più difficile del mondo pure quando si ha questo sogno, figuriamoci quando è solo un ripiego, quando non si ci sente portati o non si ha passione.
Sembra semplice, ma non lo è, non tutti sono portati a farlo; vorrebbero tutti essere come il professor Keating de “L’attimo fuggente”, ma spesso somigliano più al preside Nolan.
Sono visti sempre così, i professori, quasi non ci fosse una via di mezzo, da sempre, in qualunque tipo di scuola, capitani o dittatori, bianchi o neri.
Caro professore, spero che i suoi alunni la vedano come Keating, perché se la vedono così, probabilmente lo è, ed è solo un bene, perché c’è bisogno di tali professori.
Spero che un giorno, guardandosi allo specchio, vedrà un capitano, non un tiranno, vedrà un Keating e non un Nolan, e che dalle sue mani escano altri Keating, che forse, è la cosa più importante.
Roberta Mazzaglia
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