Liberi di credere: Il rapporto tra giovani e fede

Il parere di alcuni sacerdoti e laici di Verona sul complesso rapporto tra giovani e fede, e se e come la Chiesa sta reagendo al fatto che sta avendo sempre meno presa sull'universo giovanile.

Liberi di credere: Il rapporto tra giovani e fede

 

Prendendo lo spunto dagli esiti delle ricerche promosse dall’Osservatorio socioreligioso del Triveneto, Segni dei tempi ha voluto sentire il parere di alcuni sacerdoti e laici di Verona sul complesso rapporto tra giovani e fede, e se e come la Chiesa sta reagendo al fatto che sta avendo sempre meno presa sull’universo giovanile. Don Rino Breoni – rettore di San Lorenzo, Maria Rocca – docente al liceo Messedaglia, don Marco Campedelli – parroco di San Nicolò all’Arena, don Daniele Granuzzo – responsabile del Centro pastorale giovani della diocesi, Marco Dal Corso – docente di religione al liceo Fracastoro hanno fornito letture e riflessioni che ci auguriamo possano suscitare un franco dibattito.

 

 

 Se i giovani, come dicono indagini specifiche e come suggerisce l’esperienza di ciascuno, si stanno allontanando dalla Chiesa ma non stanno rinunciando a una ricerca della fede, vuol dire che qualcosa si è rotto. Proviamo a capire se il problema è nei giovani o nella Chiesa istituzione o riguarda l’insieme della società.

 

 

 

Don Rino Breoni. Faccio subito una distinzione. I giovani si allontanano dalla Chiesa ma non dalla fede. D’accordo, ma da quale fede? Dialogando ci si accorge che è rimasto loro un vago senso religioso. Da qui a definirla fede ci corre. La fede ha un oggetto preciso, uno spazio espressivo preciso, nel caso nostro la comunità ecclesiale. Siamo di fronte a qualcosa di più profondo e più grave del semplice distanziarsi dalla Chiesa. È una crisi esistenziale. Ho letto qualcosa su Civiltà Cattolica riguardo alla ricerca di Alessandro Castegnaro. In parte mi convince, in parte diffido delle indagini sociologiche perché tendono a ridurre tutto a statistica. E mi viene in mente il pollo di Trilussa… Ma il problema c’è, non lo nego. Sarebbe interessante far una conta alle messe domenicali, ad esempio. Se la messa è ancora uno dei segni espressivi di un qualche legame con la fede e con la Chiesa, bisognerebbe contare quanti sono i giovani che vanno all’indistinta messa parrocchiale (non a quella fatta appositamente per loro) e quanti si accostano all’Eucarestia.

 

 

 

Don Daniele Granuzzo. Non voglio difendere i sociologi. Ma posso dire che chi ha condotto questa ricerca non si è limitato alle statistiche. Ha usato anche interviste e ha sondato in profondità i giovani. Mi ha colpito il dato del crollo degli indici relativi alla partecipazione religiosa: messa, catechismo, incontri della comunità. E nelle interviste emerge che c’è una ricerca di senso. Forse una ricerca indistinta, forse lontana da ciò che la religione cattolica propone, però emerge. Altro dato che c’interroga. I giovani partecipano in massa a esperienze forti, quelle che fanno parte di una ricerca personale di senso: dalla Giornata mondiale della gioventù fino ai ritiri e ai momenti di spiritualità. Ma tutto ciò non diventa poi pratica quotidiana nella parrocchia e nella comunità. Quindi è in crisi la partecipazione tradizionale, quella che ci aspetteremmo di vedere normalmente.

 

 

 

Don Marco Campedelli. Vedo con un certo ottimismo la vicenda dei giovani. Anche perché nella nostra piccola esperienza in parrocchia cerchiamo di stare sempre sul crinale, facciamo più un percorso rivolto a quelli che cercano piuttosto che a quelli che s’identificano immediatamente con l’annuncio della fede. Credo che valga anche per i giovani quella distinzione, ormai classica, di Norberto Bobbio e del cardinal Carlo Maria Martini tra pensanti e non pensanti, piuttosto che tra credenti e non credenti. Nella ricerca di senso c’è già una profonda radice religiosa. Credo che questo sia un primo elemento che si può notare. Insomma, meglio dei giovani cercatori che dei giovani devoti. L’allontanarsi dei giovani dalla Chiesa va letto talora come un segno di maturità. Allontanandosi da una Chiesa che spesso rischia di proporre letture e approcci poco rispettosi della libertà intellettuale, esprimono una loro maturità e dignità. 

 

Al liceo (Scipione Maffei), dove insegno, sento i giovani affermare che quando vanno in chiesa e ascoltano certe prediche e certi valori propinati alla meno peggio, rischiano di perdere la fede. Forse una fede adulta, come dice il teologo luterano Bonhoeffer, consiste anche nel distinguere che una fede adulta non coincide con l’istituzione religiosa in senso assoluto. Comunque il nostro è il punto di vista di persone che giovani non lo sono più. Noi educatori e formatori dobbiamo chiederci: qual è la qualità della proposta che facciamo da un punto di vista culturale, di fede, di testimonianza? Mi ha sempre lasciato perplesso la modalità dei grandi raduni, dove c’è una forte dimensione emozionale, ma spesso, una volta spente le luci, finisce tutto. Credo invece sia molto più importante lavorare sul metodo di ascolto e sulla funzione critica della fede, una fede che insegna a pensare, a ragionare, a capire. Credo che i giovani siano un grande laboratorio di umanizzazione attraverso la fede. Credo che il Vangelo sia anche un grande serbatoio d’immaginazione.

 

 

Maria Rocca. La mia esperienza è legata alla scuola. Incontro ragazzi che non si pongono il problema di Dio e ragazzi “in ricerca”, che s’interrogano sul serio, poi si rendono conto di quanto sia faticoso cercare e qualche volta mollano. Cercare risposte è faticoso… Sicuramente incontro ragazzi molto critici nei confronti della Chiesa, considerata dogmatica, ricca, che parla bene e razzola male, ecc. Per questo la scartano in partenza. La ricerca rileva che il giovane dice: se io credo, credo con la mia testa. Riscontro ogni giorno che è così. Questa è certamente la dimensione di una ricerca che costruisce un credo prendendo spunto da tante cose, non solo dalla religione cristiana. Di fronte alla domanda credi o non credi, rispondono di credere in Dio, ma l’incontro con Gesù Cristo è lontano mille miglia. Dicono che Gesù non è esistito, e citano autori con Dan Brown e Corrado Augias. Se però, sempre in ambito scolastico, si riesce ad agganciarli, a instaurare un dialogo personale, si mettono in gioco e può avviarsi un’apertura alla ricerca. E si aspettano che tu, adulto, parli con il cuore in mano della tua esperienza di fede.

 

 

 

Don Breoni. Ho insegnato allo scientifico Messedaglia e ora al classico don Mazza. Mi faccio è sempre la stessa domanda: globalmente i ragazzi che arrivano alla scuola media superiore hanno fatto la trafila dell’introduzione ai sacramenti nelle parrocchie e dunque che cosa si è inceppato? Se hanno preso le distanze, una qualche ragione forte dev’esserci. Ho l’impressione che come Chiesa non abbiamo ancora maturato un linguaggio che sia capace di incrociare la sensibilità e le roblematiche di questa generazione. Ripetiamo, a livello sia teologico-dogmatico sia morale, sempre le stesse cose, magari con paroline diverse ma la sostanza non cambia. Questo è un grosso problema e quando se ne parla (di rado) tra preti, la reazione prima è di derubricarlo a problema poco importante. E quindi, considerato che sono anche vecchio, taccio.

 

 

 

Marco Dal Corso. Se parlo come insegnante di religione (forse è una forma di difesa) non uso la parola fede. Perché a scuola, per quanto sia “ora di religione cattolica”, la fede non abita. Lì educhiamo dei cittadini, non dei credenti. Se educassimo buoni cittadini probabilmente educheremmoanche buoni credenti. Quando a scuola affrontiamo il tema della fede e favoriamo la ricerca di ciascuno usando la Bibbia e la storia della Chiesa, le domande si moltiplicano e non si fermano più. Quindi come Chiesa dobbiamo chiederci quanto di proposta culturale abbiamo perso per strada, quanto veicoliamo un messaggio morale invece di insistere su quella che Enzo Bianchi chiama la “differenza cristiana”. Come papà invece sto sperimentando la solitudine dell’educazione religiosa. Abito in periferia e la parrocchia non risponde. Ma non guardo a ciò in maniera solo critica, nel senso depressivo della parola. Io non sono cristiano come lo era mio padre e mio figlio non sarà cristiano come lo sono io. Mio figlio sedicenne mi dice: sono cristiano per contingenza. Nel merito della crisi enucleata dalla ricerca, osservo due cose. Intanto come Chiesa e come comunità non sappiamo raccontare ai giovani la novità della differenza cristiana. L’altra questione, che compete solo parzialmente alla Chiesa, è la crisi della nostra generazione di educatori-genitori (i quaranta-cinquantenni). La prima generazione incredula, libro di don Matteo Armando, gioca un po’ con le parole: i genitori hanno portato i sacramenti della fede, ma non la fede dei sacramenti. I ragazzi in chiesa e non la Chiesa ai ragazzi. Dove, cioè, la fede è insignificante per l’adulto come può esserlo per il ragazzo che cresce in quella famiglia. Ma qui bisogna guardare non solo alla Chiesa ma alla società nel suo complesso.

 

 

 

 

 

Cerchiamo di approfondire due aspetti tra loro connessi. Intanto se la Chiesa istituzione capisce l’urgenza di questa situazione oppure se questi temi sono messi tra parentesi. In secondo luogo, esiste una proposta religiosa in grado di intercettare questo malessere, questo allontanamento?

 

 

 

Don Campedelli. Se il regno di Dio è apertura anche la Chiesa istituzione dovrebbe cogliere questo aspetto. Una Chiesa sbilanciata sul Regno (e qui il concilio Vaticano II ha aperto una porta) è una Chiesa meno autoreferenziale, meno preoccupata di perdere la gente, meno angosciata. Quando, come Chiesa, siamo troppo preoccupati di perdere i giovani, significa che siamo preoccupati per noi, non per i giovani. Un esempio. A scuola i giovani oggi recepiscono quello che papa Francesco sta dicendo, hanno la sensazione che spinga all’apertura. Dipende molto da come ci poniamo. Siamo ancora troppo ecclesiocentrici, abbiamo questo amore tremendo per la Chiesa, che nasconde a volte una patologia. Perché l’amore per il Regno, per paradosso, dovrebbe essere molto più grande. Penso a una Chiesa generosa nell’annunciare e poco preoccupata di trattenere. Preoccupata di formare uomini che pensano e che vivono… Ma non mi pare che nemmeno l’avvento di Francesco abbia smosso più di tanto l’istituzione. Eppure basterebbe soffermarsi sul linguagcamgio, i vocaboli usati da Francesco in questi ultimi mesi e confrontarli con le parole che girano nella nostra Chiesa per capire che qualcosa non va.

 

 

 

Don Granuzzo. In una parrocchia di Verona, non dico quale, il parroco decide di organizzare un’iniziativa sui giovani. Vado, presento al consiglio pastorale alcune problematiche, tocco anche questioni sociologiche e offro qualche pista di lavoro. Nel frattempo osservo che nel consiglio pastorale i giovani sono due, là in un angolo, senza dire una parola. Invitati per l’occasione. Un paio di mesi dopo torno e parlo con il parroco e con il responsabile dei giovani di ciò che hanno elaborato. E li trovo con il muso lungo perché i giovani non ci sono e quando ci sono creano mille problemi. Ma di fatto questa elaborazione l’hanno fatta tra di loro, senza i giovani. Come Chiesa istituzione e come parrocchie siamo poco attrezzati culturalmente e ci manca un metodo. Al punto che non ci viene nemmeno in mente di provare a sentirli, a coinvolgerli questi giovani. E così in alcune parrocchie si crea una sorta di pastorale parallela a quella ordinaria con un curato o un animatore che sanno avvicinare i giovani, li ascoltano, li accompagnano.

 

 

 

 

Bella l’immagine di don Marco, quella di una Chiesa che non è preoccupata di sé ma del Regno. Ma dov’è questa Chiesa? Nella nostra realtà veronese, che ha una comprensibile preoccupazione di alimentare se stessa, è attraverso la dimensione ordinaria di essere Chiesa (la messa, il catechismo ecc) che un ragazzo può incontrare una dimensione di fede. Noi cinquantenni da ragazzi abbiamo incontrato una comunità, un prete, abbiamo incrociato la Parola. E da lì è iniziato un percorso. Oggi l’ordinarietà non è garanzia di nulla. Non si riesce più ad avere una sensibilità, anche di linguaggio (compreso quello liturgico) capace di arrivare ai giovani e alle loro domande. Il cuore dell’ordinarietà è la messa. Quando un sedicenne va a messa, manifesta indifferenza e noia. Dopo il Concilio c’è stata una rielaborazione dei linguaggi e dei gesti però quel momento è ancora troppo lontano dai giovani. Le omelie chi le ascolta? O perché sono banali o perché sono complesse… C’è chi, nei consigli parrocchiali, ritiene che sia un bene che i giovani facciano fatica a capire le omelie perché è così che si cresce. La fatica del partecipare come segno di fedeltà… E invece va recuperato anche il gusto, il piacere di appartenere a una comunità. C’è un grosso investimento da fare innanzitutto su chi frequenta il contesto ordinario. Non è possibile che dopo otto anni di frequentazione, il giovane contesti la Chiesa perché “parla della mia morale”. Non riusciamo a comunicare qualcosa della resurrezione di Cristo.

 

 

 

Don Breoni. Ricordiamoci della libertà personale. Di fronte ad ogni proposta di vita una persona è libera scegliere. E questo non vuol dire essere fuori strada.

 

Rocca. Ciò che disturba tanto i ragazzi è sentirsi sempre sotto giudizio. Il messaggio liberante, il messaggio d’amore cristiano, il Dio che si è fatto uomo e ti ama, passa solo se si instaura una relazione con i ragazzi. Ma la Chiesa istituzione dà dei giudizi. Dove c’è un atteggiamento non giudicante – penso alla parrocchia di don Marco o a quella dei Santi Angeli Custodi, quartiere Stadio – i giovani ci sono. Andiamo a vedere perché queste parrocchie sono in controtendenza: perché sono gestite da brave persone (nel senso che si mettono in gioco, si lasciano coinvolgere, non sono giudicanti) o anche perché fanno un proposta seria. I ragazzi hanno bisogno di essere presi sul serio.

 

 

 

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