Mi ricordo la prima volta che ho sentito la paura di quel virus che ormai da mesi vive con noi e che ha cambiato le nostre vite.
di Anita Marton
Mi ricordo la prima volta che ho sentito la paura di quel virus che ormai da mesi vive con noi e che ha cambiato le nostre vite. Ero uscita con una mia amica un venerdì sera, il 21 febbraio. Appena scesa dall’auto, dopo aver parlato con lei di tutto ma non certo di epidemie, ho dato uno sguardo al cellulare: un messaggio di mia mamma che diceva: “Hai sentito? Allerta virus in Veneto. Non stare troppo vicino alle persone.” Poi da quel primo caso in Italia è successo quello che tutti sappiamo, semplicemente perché l’abbiamo visto, vissuto, patito, chi più chi meno, in modi diversi, per qualcuno tragici. Sta di fatto che da quasi un anno non c’è giorno in cui non si parli di questo invisibile nemico. Così piccolo che sembra non ci sia, ma così grande da mettere in ginocchio l’umanità intera.
Per capire come si è diffusa l’epidemia del nuovo coronavirus (SARS-CoV-2) si è cercato di risalire al responsabile. Da qualcuno e in qualche luogo tutto questo deve essere partito. Molte sono state le teorie avanzate dagli studiosi, ma il favorito sembra essere il pipistrello. Dalle analisi è apparso come il virus che causa la Covid-19 sia uguale al 96% a un altro virus, ritrovato in una particolare specie di pipistrello, il Rhinolophus affinis. Il virus, però, non ha fatto il salto di specie direttamente dal pipistrello all’ uomo: come spesso accade, anche in questo caso è plausibile ipotizzare un ospite intermedio. Un’ulteriore somiglianza è emersa tra il SARS-CoV-2 e il virus chiamato pangolin-CoV-2020, il coronavirus riscontrato nel pangolino. Nonostante inizialmente si sia pensato che proprio questo mammifero squamato, simile a un armadillo, sia il tanto famigerato ospite intermedio, più recenti analisi hanno dimostrato la scarsa attendibilità della teoria. La ricerca dell’intermediario tra pipistrello e uomo continua, una volta appurato, quindi, che i pangolini sono naturali ricettacoli dei coronavirus, ma è improbabile che siano stati loro ad aver trasmesso il SARS-CoV-2 all’uomo.
Nonostante c’entri ben poco con la pandemia, il pangolino ha però un ruolo diverso ma fondamentale per una comunità del Congo, nella regione del Kasai. Studiata dall’antropologa Mary Douglas a metà del ‘900, la società dei Lele del Congo ruota attorno a un sistema classificatorio complesso: ogni cosa ha un suo posto, un suo nome, una sua definizione e classificazione. Dare un nome e un significato a una cosa la rende pensabile, reale e quindi controllabile. Un solo animale è rimasto escluso dalla classificazione lele: il pangolino. Si tratta di un’anomalia cognitiva, cioè una difficoltà nella percezione concettuale di questo animale; non ha un posto, non è pensabile, quindi è pericoloso, perché mina all’ordine del loro modo di vedere la realtà. È un tabu, termine malinesiano che significa “da non avvicinarsi con leggerezza”. Come può questo animale così innocuo e docile causare tanta confusione nel sistema lele?
Secondo la loro cultura, un animale con le squame dev’essere per forza un abile nuotatore; un animale che si arrampica saprà anche volare o compiere lunghi salti; se è brutto vuol dire che è cattivo; se assomiglia a un serpente o a un coccodrillo deporrà le uova, e così via. Eppure il pangolino è simile a un rettile ma è un mammifero e come tutti i mammiferi non depone le uova; ha le squame eppure non sa nuotare ed ha addirittura paura dell’acqua; si arrampica sugli alberi ma non può volare; è considerato un animale brutto, eppure è estremamente riservato, timido e pauroso. Per questo è tabu: il pangolino è troppe cose insieme e nessuna allo stesso tempo, non ha un suo posto nel sistema classificatorio, non è pensabile. Nonostante l’avversione nei suoi confronti, il pangolino acquista un ruolo decisivo nel rituale di iniziazione, momento centrale della vita di ogni lele, in cui la società trasmette ai giovani iniziati i suoi valori più importanti, vale a dire il sistema delle classificazioni. Insieme a questo, però, viene loro presentato lo strano caso del pangolino: un unico piccolo animale che rende imperfetto il loro sistema. Durante il rito, il pangolino assume valenza metaforica, diventa cioè il simbolo di come ognuno nella vita sia destinato a scontrarsi, prima o poi, con qualcosa che ne turberà l’ordine. Ognuno incontrerà il proprio pangolino: sarà quella domanda a cui nessuno darà mai una risposta, quel dolore senza un senso, quella situazione imprevista che non si è pronti ad affrontare. Il pangolino rappresenta quell’unico elemento in grado di sgretolare l’intero sistema della società, aiuta a riflettere sul senso del limite della conoscenza, ed è proprio la consapevolezza dell’imprevedibilità della vita che rende un membro della società lele davvero adulto.
Questo nuovo coronavirus ha stravolto le nostre abitudini e la nostra vita, ci ha messi con le spalle contro il muro, dicendoci con chiarezza che non tutto dipende da noi. Ci siamo trovati senza volerlo nel bel mezzo di un rituale di iniziazione e ci viene chiesto di accettare il fatto che questo virus esiste, anche se ci sta scomodo, e che dobbiamo imparare a conviverci per un po’. Come sanno bene i Lele, ognuno incontra un pangolino, nella propria vita. E questa pandemia è il pangolino del nostro tempo.
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