La secolarizzazione ha colpito anche la scuola, ma può essere un’opportunità. Una riflessione a margine dell’incontro al Meeting con Carrón, Taylor e Williams
La secolarizzazione di cui si è parlato in questi giorni al Meeting di Rimini (concetto derivante dal ponderoso saggio sull’età secolare del filosofo canadese Charles Taylor), come ha colpito le società occidentali, così ha colpito la scuola. Se nella realtà di tutti i giorni la fede cristiana non si trasmette più per tradizione ma è costretta a fare i conti con l’offerta di un ampio ventaglio di opzioni, per cui o è attrattiva rispetto alle domande dei singoli o non è presa in considerazione, così nella scuola da tempo, dall’inizio degli anni Settanta, è avvenuto il salto. Il sapere non si trasmette più secondo regole e presupposti dati per scontati (la fissità delle discipline, la sempre uguale strutturazione degli ambienti di apprendimento e degli orari), ma deve continuamente essere reinventato non tanto nelle sue basi, quanto piuttosto nelle forme che rendendolo aperto e partecipato possono permettere all’alunno di compiere un’esperienza di gusto personale nell’accostarsi a problemi, quadri temporali diversi, insiemi categoriali, ecc.
A due livelli soprattutto la secolarizzazione ha picchiato duro nella scuola: la perdita della sacralità della funzione docente e il ruolo del programma nella formazione degli scolari. Il docente non è più sacro perché non corrisponde più a nessuna “chiesa”, intesa in senso laico. Non ha più la missione di fare gli italiani, non è mandato dal preside, dal ministero o da qualche autorità superiore a fare qualcosa di speciale per la patria. L’unico mandato che riceve è dalla propria coscienza, dalla propria personale convinzione, dall’esperienza culturale a cui appartiene, se appartiene.
Allo stesso modo, pur se gli ultimi giapponesi non mancano mai, anche l’epoca del programma scolastico è tramontata. E gli ultimi giapponesi sono naturalmente gli insegnanti che ancora “seguono i programmi ministeriali” come se fossero la bussola utile per attraversare le difficoltà della didattica. In realtà, i programmi sono stati superati, volenti o nolenti, dalle indicazioni nazionali che tutto contengono fuorché la pretesa di forgiare una nazione.
Queste due “estinzioni” hanno richiesto tempo, naturalmente: quello degli ultimi cinquant’anni. I riscontri di ciò che è avvenuto sono comunque impressionanti: l’insegnante non si sente più parte di un corpo, il corpo docente, bensì di una corporazione. Non testimonia “valori”, bensì interessi molto particolari, molto immediati. Fatica perciò, tranne quando è obbligato a farlo, a collaborare con i colleghi che in fondo gli sono estranei. L’altro riscontro è la difficoltà, caduto il velo del programma, a stabilire una relazione con gli alunni che non sia fondata, implicitamente o esplicitamente, sul dover essere anziché sul loro essere un valore già in partenza e basta. La pandemia nella quale siamo piombati ha evidenziato il vuoto lasciato dalla secolarizzazione nell’ambiente scolastico.
Nella didattica a distanza, per esempio, il livello di comunicazione tra insegnante e alunno ha tenuto da entrambi i lati se poggiato sul livello della decisione personale a implicarsi vicendevolmente, più che sul generico senso del dovere. E una volta ritornati in presenza (chi prima, chi poi) è inevitabile impostare la lezione non sul programma (attenzione: cosa ben diversa è la programmazione!), ma sulla ricerca comune di un senso che leghi la disciplina alle domande che urgono esistenzialmente il cuore di tanti.
Torna dunque a proposito anche per la scuola la sfida lanciata dal Meeting a vivere la secolarizzazione come un’opportunità. In che senso? Se sul piano della fede il vuoto dell’età secolare si può colmare tornando non agli schemi religiosi, bensì alla circolazione di “io” che come calamite attraggono a sé fino a formare un nuovo popolo, su quello educativo allo stesso modo solo la riscoperta della persona e delle sue domande è la risorsa da cui ripartire. Per non essere astratti e curvare questo ragionamento sul versante della scuola in azione, occorre dire che esistono già esperienze pratiche di vittoria sulla nullificazione della proposta di educazione e istruzione. Esperienze che tengono conto dell’essere intero degli alunni: ragione e sentimento.
In questo senso tutta la novità rappresentata dalle competenze non cognitive in ambito scolastico (character skills) dovrà essere attentamente valutata. Così come la questione dell’autonomia scolastica ancora incompleta nonostante gli anni trascorsi dalla sua introduzione in Italia. Insomma, la fine di certi presupposti e “valori” scolastici non si combatte con il richiamo all’ordine o al “com’era bello un volta”, ma rimboccandosi le maniche e mettendosi a navigare nel mare del possibile, del vero, del bello. Il contrario dello scontato.
tratto da ilsussidiario.net
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