Difficilmente l'uomo contemporaneo accetta tranquillamente questa lezione, e anche il credente la trova intollerabile se non avverte più - come unica radice e spiegazione di tutto - la presenza operante di Dio. Il maremoto asiatico pone insomma in discussione, una volta ancora, il senso della vita, essendo tragedie e dolori un mistero spesso incomprensibile.
del 01 gennaio 2002
Un'immagine televisiva (tra le tante che hanno contribuito a farci sentire strettamente vicina la tragedia, quasi che affacciandoci al nostro giorno di festa potessimo scorgere «in diretta» il lutto dell'Asia) più di tutte ci sembra riassumere i contorni e il senso di una rovina continentale: un uomo dolente, le labbra serrate forse perché non trova parole o tutte le ha già consumate, avanza nell'acqua reggendo un bambinello nudo, contro uno sfondo di flutti che ancora si sfogano, e implicitamente minacciano. In una composizione che può richiamare alla nostra memoria figurativa innumerevoli Stragi degli innocenti e Madonne piangenti il Figlio morto, quell'uomo e quel bimbo sono l'emblema involontario, ma non per questo meno eloquente, anzi, della condizione umana nel momento delle prove estreme. Cioè quando anche la preghiera si fa disperata e le domande - come quelle silenziose che vengono, nel nostro caso, dall'uomo che sembra implorare aiuto e insieme dal bimbo che non sappiamo se moribondo o morto - difficilmente trovano una risposta, come difficilmente nell'attimo cruciale la trovò la tremenda questione: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Ovviamente le due vicende che stiamo raccontando o evocando non sono comparabili, però in parte sovrapponibili lo sono, perché il senso di abbandono di Gesù che all'improvviso non sente più la presenza del Padre non è diverso, nella sua umana essenza, da quello di coloro che, senza spiegazione apparente, o comunque soddisfacente, si sentono lasciati soli a confrontarsi con perdite incolmabili e per giunta, come suggerisce un'intima ribellione, ingiuste. Moltissimi di noi subiscono queste perdite e in genere le ferite profonde come una lezione amara, che ci sottrae alla smemoratezza favorita dai prodigi tecnologici e dall'egocentrismo sempre più diffuso per ricordarci la fragilità della nostra esistenza; e ancora - come viene sperimentato adesso su una scala di grandezza rara, che straordinariamente impressiona - l'estrema debolezza delle difese umane e la precarietà della vita stessa davanti alla violenza della natura.
Difficilmente l'uomo contemporaneo accetta tranquillamente questa lezione, e anche il credente la trova intollerabile se non avverte più - come unica radice e spiegazione di tutto - la presenza operante di Dio. Il maremoto asiatico pone insomma in discussione, una volta ancora, il senso della vita, essendo tragedie e dolori un mistero spesso incomprensibile. La soluzione, come sappiamo, può essere illuminata e guidata soltanto dalla fede, che ci ricorda come Dio infinitamente e misteriosamente ci prediliga, e come la sua vera forza non stia nella potenza, ma nell'amore. Un amore spesso vilipeso, e più spesso offeso.
Quando eravamo bambini, venivamo esortati a «non far piangere Gesù» con i nostri peccati. Ora, influenzati dalla cultura corrente, quella stessa che persuade a cercare per mare e per terra surrogati di Paradiso, siamo sovente tentati di dire che il peccato è meno grave di una catastrofe o della malattia incurabile di un nostro caro. Abbiamo così aperto, ce ne rendiamo conto, un discorso grave, e particolarmente arduo in circostanze tanto luttuose. Ma è stata l'immagine di quel bambino morto o moribondo a ricordarci che quelle regioni sono meta - anche - di turismo pedòfilo, sessuale. In troppi casi comunque predatorio. Ecco allora un'inattesa occasione per rimediare, e per dimostrare ai poveri di laggiù, con soccorsi immediati e con progetti di aiuto e prevenzione a lungo termine, un amore disinteressato, un rispetto limpido e duraturo.
Elio Maraone
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