Né bisbetico né frivolo. Indagine sulla complessità della figura genitoriale mas...

Chi è il padre? È questa la domanda forse più ansiosamente ripetuta nella letteratura psicologica contemporanea

Né bisbetico né frivolo. Indagine sulla complessità della figura genitoriale maschile

 

Chi è il padre? È questa la domanda forse più ansiosamente ripetuta nella letteratura psicologica contemporanea. Ciò fornisce intanto due informazioni. La prima: se continuiamo a chiedercelo è perché molti non sanno più chi sia. La seconda: chiarirci le idee è dunque necessario, anche se non facile. Padre, innanzitutto, è preda dei fantasmi di uomini e donne che l’hanno fatto fuori. Imprigionandolo con rappresentazioni di maniera che corrispondono ormai solo alle loro paure, o nostalgie. Per gli uni è il barbuto bisbetico il cui sguardo rimprovera dal ritratto ormai riposto in qualche cassetto; per gli altri è il frivolo papà vestito all’ultima moda e incapace di «dare norme».

La realtà è più complessa, non facile da rappresentare; ma bisogna provarci. Le opinioni su chi sia il padre già si differenziano tra Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, all’inizio della psicoanalisi. Per Freud il padre era innanzitutto l’antagonista del figlio (simboleggiato nella vicenda mitica di Edipo) nella competizione per il possesso della madre. Sconfiggendolo, rendeva il figlio consapevole della legge e del principio di realtà. Nell’esperienza terapeutica junghiana invece, il padre, oltre e al di là dell’«Edipo» freudiano, è un’immagine transpersonale che compare con nomi diversi fra gli archetipi dell’inconscio collettivo, centri permanenti di energia psichica. Questa presenza dell’inconscio personale e collettivo va al di là del padre personale, diventa stabile riferimento del sé del bambino, alimenta e ispira esperienze importanti per il suo equilibrio psicologico complessivo (come quelle creative, sociali, religiose). La sua attività sulla psiche umana si rivela in modo esplicito durante e dopo il processo di separazione che conclude la fusione madre-figlio, alla cui riuscita fortemente contribuisce. Le due figure del padre, quello personale, biologico e sociale, e quello transpersonale e archetipico, che lo trascende, sono rappresentate anche da forme linguistiche diverse, con differenti significati e potenzialità. Da una parte il pater (greco, latino, vedico), transpersonale, e dall’altra l’atta (o tata), il «papà» che nutre e alleva. Queste due diverse forme, con le differenti forze cui rispettivamente rimandano, costituiscono, assieme, il campo psicologico paterno.

Le due visioni, quella del padre come antagonista (a sfondo più o meno accentuatamente sessuale) del figlio, e quella del padre come oggetto d’amore sovrapersonale, porta no a interpretazioni profondamente diverse non solo della figura paterna, ma della stessa vita (oltre che della terapia psicologica). L’idea, propria della psicologia junghiana, che esista un padre archetipico, non coincidente con il padre biologico e con i rancori inconsci verso di lui, è oggi piuttosto osteggiata. Come ricorda Jung, ormai pochi contestano che esista uno strato psichico al di sotto della coscienza (l’inconscio), ma «l’idea che possano anche esistere degli strati, per così dire al di sopra della coscienza sembra rasentare il delitto di lesa maestà umana». Le altezze spaventano, e irritano. Nella visione freudiana del padre, della competizione «edipica» tra padre e figlio, assume un’importanza centrale la questione del potere e della trasgressione provocata dallo forzo di mantenerlo. Nella «competizione» padre-figlio, il potere travalica così spesso lo spazio dell’amore, e l’esercizio dell’autorità spinge in secondo piano l’impegno paterno ad affermare la libertà personale dei figli, educandoli a riconoscerla, rispettarla e farla rispettare.

La visione antagonistica del rapporto padre-figlio espressa dal freudismo ha contribuito a far sì che il vasto movimento che ha contestato in occidente negli anni Settanta il potere politico e sociale dell’epoca venisse interpretato come una rivolta contro il padre. Si confusero così con il padre le autorità di quegli anni, promotrici proprio di quella legislazione familiare (divorzio e aborto innanzitutto), che pose le basi di una possibile cancellazione della figura paterna. «La rivolta contro il padre» da acuta che era si è poi cronicizzata in un processo di sistematica negazione di contenuti «specifici» della paternità, ridotta a posizione di supporto della madre, o con essa più o meno intercambiabile. Questo processo, funzionale all’organizzazione del lavoro e al potere delle burocrazie statali nazionali e internazionali (sollevate da un imbarazzante interlocutore), ha poi ugualmente travolto anche ogni contenuto specifico (anche affettivo e riproduttivo) della stessa madre.

L’identificazione tra il padre e la legge ha in questo modo caricato il padre di responsabilità che non lo riguardano. In realtà egli è, da diversi decenni, l’oggetto dell’attacco della legge, e non il suo ispiratore e utilizzatore. Il padre come garante della legge è stato proposto dal freudismo in un tempo in cui il diritto (unica incarnazione riconosciuta della legge nell’epoca della secolarizzazione), ha invaso la vita e l’intimità personale, con scoppi autoritari devastanti, come quelli totalitari del Novecento, e con biotecnologie (con i loro miti annessi) che da allora a oggi occupano e tendono a regolare il campo delle relazioni affettive e della stessa riproduzione. Il fatto è, come ricorda Simone Weil nelle sue meditazioni, che il diritto non è la giustizia (compagna delle divinità, ricorda ancora Weil). Anche quella del faraone che teneva gli ebrei schiavi era legge, anche quella di Hitler che fa decapitare a 25 anni i fratelli Scholl, fondatori del movimento giovanile cattolico La rosa bianca, lo era. Il diritto non lo produce il “padre”, ma il legislatore, che non ha attualmente per lui nessuna simpatia. È quindi ora di sfilare il padre dalla pesante responsabilità del diritto della modernità, prodotto da Stati e sistemi nazionali e internazionali fortemente burocratici e quindi ostili a un’autentica libertà personale. Il padre non è certo il nume tutelare della riproduzione umana in laboratorio.

L’altra visione, quella di una paternità profonda, iscritta nella psiche di uomini e donne, e autonoma dalla figura del padre biologico (che tuttavia può vantaggiosamente ispirarvisi), vede invece il padre come operatore di libertà. Egli è inoltre testimone di un «altrove» (uno spazio psicologico diverso da quello dell’immediatezza), dove si trovano le sorgenti della vita, della forza paterna e anche quelle necessarie allo sviluppo del figlio.

Questa libertà donata dal padre transpersonale e archetipico attiva energie e direzioni non necessariamente coincidenti con il pur importante campo biologico e il padre naturale che lo rappresenta. In questo altro senso il padre è per l’individuo una risorsa personale di carattere simbolico cui egli istintivamente si rivolge, innanzitutto con il pensiero e il sentimento, quando la sua liberà è in pericolo. Egli percepisce allora la necessità di entrare in contatto con un diverso spazio psicologico, spirituale, simbolico e affettivo che lo metta al riparo delle insidie, anche psichiche e spirituali, che avverte sul piano della realtà immediata. Dalla quale dunque desidera prendere distanza. Questa necessità si può presentare in ogni momento, ma sicuramente si produce in alcuni delicati passaggi della vita nei quali è in gioco la libertà della persona. Si tratta, per esempio, del bisogno infantile di affrancarsi dalla simbiosi con la madre che a livello psicologico e anche fisico tende a continuare anche dopo la nascita. In questo caso è proprio il padre transpersonale, per nulla coinvolto in una competizione con il figlio per il «possesso della madre», che può aiutare il bimbo a differenziarsi dalla madre fusionale. È sempre il padre archetipico ad attivare nel figlio la tensione verso l’«altrove» della propria libertà e responsabilità, e il «mondo altro» (rispetto a quello secolarizzato, ridotto a cose), cui essa rimanda. È ancora questo padre transpersonale e l’«ambiente divino» da cui promana, a fornire all’adolescente che vi si rivolga le energie necessarie a non essere travolto dalle pulsioni (non solo sessuali, ma anche distruttive-autodistruttive), che lo incalzano durante la profonda trasformazione in atto dalla prepubertà alla fine della giovinezza. Così come è questo padre sovrapersonale l’interlocutore prezioso del giovane adulto, che comincia a percepire l’opportunità di uno sviluppo di vita non imprigionato nella dimensione orizzontale della materia, con i suoi feroci e progressivi condizionamenti.

Infine, nell’ultima parte dell’esistenza, il padre apre il figlio alla ricca e feconda prospettiva della morte. Essa chiede, per non essere vissuta con plumbea angoscia, una rinnovata distanza dagli attaccamenti quotidiani di cui è intessuto il «piano di realtà», ormai privato della sua dimensione sovrapersonale e trascendente dall’intellettualismo della cultura secolarizzata, che riduce l’universo a cosa .

 

Claudio Risé

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