Yagoub Kebeida, rifugiato sudanese in Italia: migliaia di persone continuano a morire in Sudan nel «totale silenzio dell'Onu e del mondo. La libertà religiosa è uno dei tanti diritti attualmente negati in Sudan».
Il giudice che ha condannato Meriam Yehya Ibrahim, la donna sudanese accusata di apostasia, ha applicato la legge islamica (sharia), che tra l’altro “non tutti i musulmani riconoscono”. Ne è convinto Yagoub Kibeida, rifugiato sudanese che vive in Italia, a Torino, da diversi anni ed è impegnato come mediatore culturale.
La condanna della giovane ha suscitato polemiche all’interno del mondo islamico, e molte voci – ci spiega - si sono levate contro di essa. “Quello che non viene detto dai media occidentali – aggiunge Kibeida - è che questa è una condanna di primo grado e che, per diventare definitiva, ha bisogno di ulteriori verifiche come la prova che la donna non sia malata di mente o influenzata da altre persone”.
Molti sudanesi ritengono questa vicenda “importante”, evidenzia – “per far capire al mondo occidentale l’estremismo del governo sudanese: al tempo stesso, questa donna è solo una delle migliaia di vittime della dittatura di Al Bashir, a causa delle loro idee libertarie o delle loro richieste di giustizia sociale e politica”.
Kebeida ci sottolinea che migliaia di persone continuano a morire in Sudan nel “totale silenzio dell’Onu e del mondo. La libertà religiosa è uno dei tanti diritti attualmente negati in Sudan”. In questi giorni, infatti, l’università di Khartoum è stata chiusa perché gli studenti manifestavano contro il governo: “Le prigioni sudanesi sono affollate da oppositori del governo fondamentalista”.
I sudanesi che vivono in Italia “temono una propaganda contro l'islam: noi non siamo responsabili e non siamo complici di questi tipi di atti estremi. Siamo vittime egualmente come questa donna”. Per Kibeida occorrerebbe far conoscere di più, in Occidente, la realtà che vive il Sudan: “Sono pochi le tv e i giornali che parlano della guerra in Darfur o del massacro dei manifestanti contro il regime a Khartoum”.
“Nelle migrazioni forzate di oggi sempre più arrivano persone e famiglie vittime di una persecuzione religiosa o perché minoranze in alcuni Paesi" spiega monsignor Gian Carlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes: “Risulta necessario, a tale proposito, allargare la possibilità di protezione internazionale per questi casi, attraverso un esame non sommario dei casi. A tale proposito sarebbe necessario monitorare meglio anche i recenti arrivi di migranti attraverso gli sbarchi. La crescita di forme di fondamentalismo religioso – conclude il direttore Migrantes - porta con sé non solo in Sudan e in altri Paesi dell’ Africa, ma anche in Asia, la necessità di tutelare la libertà religiosa anche attraverso la tutela del percorso migratorio”.
Raffaele Iaria
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