La Chiesa si vede, si tocca alle cinque di un pomeriggio, quando il sole cala dietro alla basilica e nell'ombra improvvisa la marea fino ad allora vociante zittisce: ecco, sta per arrivare il Papa, silenzio. E in quell'istante di attesa vedi che è Chiesa la madre con il figlio neonato in braccio, piena, lieta, che pare una maternità di pittori rinascimentali, e le vecchie accanto, donne del Sud, i rosari in mano. Chiesa sono le decine di ragazzi in veste da chierici che aprono la processione, assorti...
del 05 aprile 2005
 
Non è solo una folla immensa. Non è solo gente commossa dall'andarsene di un Papa molto amato. E nemmeno, come pensa qualcuno, è, attorno al lutto dei «veri» credenti, l'aggregarsi per curiosità o conformismo degli «altri». La marea di gente che ieri ha aspettato pazientemente per ore e ore di poter vedere per l'ultima volta - e per un istante solo - la faccia del Papa, che per questo si è alzata all'alba, o è venuta da lontano, viaggiando nella notte, era più che che una folla, e più che da un'emozione, sia pure nobile come un lutto, era tenuta assieme. Ieri sera in piazza San Pietro, mentre sfilava la processione che conduceva il feretro di Wojtyla in Basilica, come già l'altra notte, al momento dell'annuncio della morte, nelle facce e nei gesti e nelle voci della folla si è vista la Chiesa. La si è riconosciuta e la si è sentita respirare, nel corpo di duecentomila persone. Non un'astrazione: viva. Mani, occhi, sguardi - uomini, donne. C'era di tutto, ieri, in piazza, dai borgatari delle periferie di Roma agli studenti di teologia, dalle famiglie coi figli piccoli agli operai in tuta, appena finito il turno, a stranieri arrivati da ogni parte del mondo. Quando questa umanità apparentemente senza alcun minimo comune denominatore, come nella Messa in suffragio per il Papa, insieme, con la forza che il comune dolore dà alla preghiera, intona il «Credo in unum Deum», chi sta ad ascoltare riconosce che quella è non è folla, è la Chiesa, tangibile, fatta di facce di ogni giorno, di scarpe da ginnastica, di magliette poco fini, di sguardi stanchi di gente che ha dormito male sotto il colonnato.
La Chiesa si vede, si tocca alle cinque di un pomeriggio, quando il sole cala dietro alla basilica e nell'ombra improvvisa la marea fino ad allora vociante zittisce: ecco, sta per arrivare il Papa, silenzio. E in quell'istante di attesa vedi che è Chiesa la madre con il figlio neonato in braccio, piena, lieta, che pare una maternità di pittori rinascimentali, e le vecchie accanto, donne del Sud, i rosari in mano. Chiesa sono le decine di ragazzi in veste da chierici che aprono la processione, assorti. Ce n'è di neri, nordici, latini. Hanno forse vent'anni. Chissà, ti chiedi, chi ti passa davanti questa sera, chissà quali destini si incrociano su questi ragazzi. E i vecchi, i più anziani dei cardinali: come si vede addosso a loro, stasera, la fatica segnata nel corpo della Chiesa. Nei canti, nelle litanie in latino la piazza pare ritrovare una voce che, se pure non sa più, in qualche modo riconosce. Come una lingua materna e non dimenticata. Qualcuno accenna a mezza voce a seguire le invocazioni ai santi: Sancte Bernardi, ora pro eum. Alzi gli occhi alla cupola. Duemila anni sono passati, e cosa è rimasto, di ciò in cui gli uomini credevano duemila anni fa? Ti volti, la piazza colma ti impressiona. E, nella piazza, gli sguardi, l'ostinazione della gente venuta all'alba, per seguire fino all'ultimo quell'uomo. Che adesso abbracciano, pallido nella morte. Ma che ha lasciato detto, sua ultima parola dal soglio di Pietro: «È veramente risorto». Duemila anni dopo, una moltitudine immensa a Roma si fa il segno della croce, e porta a casa i suoi figli.
Marina Corradi
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