Spesso pensiamo che il passato non ci appartenga. Uomini che per noi sono solo nomi scritti in qualche libro noioso e che ci restano in mente giusto per l’interrogazione, poi vanno dritti nel dimenticatoio. La realtà, però, è diversa. Quegli uomini e quelle donne vissuti mille, duemila, tremila anni fa condividono con noi un tratto distintivo: essere esseri umani. Con tutto quello che questo comporta. Rileggendo pagine antiche, emergono sentimenti, pensieri, sogni che fanno esclamare: “Sentivi anche tu quello che sento io?”. Cambiano i secoli, mutano i luoghi, le città e le civiltà, ma il cuore dell’uomo batte sempre allo stesso modo.
di Anita Marton
Spesso pensiamo che il passato non ci appartenga. Uomini che per noi sono solo nomi scritti in qualche libro noioso e che ci restano in mente giusto per l’interrogazione, poi vanno dritti nel dimenticatoio. La realtà, però, è diversa. Quegli uomini e quelle donne vissuti mille, duemila, tremila anni fa condividono con noi un tratto distintivo: essere esseri umani. Con tutto quello che questo comporta. Rileggendo pagine antiche, emergono sentimenti, pensieri, sogni che fanno esclamare: “Sentivi anche tu quello che sento io?”. Cambiano i secoli, mutano i luoghi, le città e le civiltà, ma il cuore dell’uomo batte sempre allo stesso modo.
Immaginatevi, ora, una Roma senza Colosseo, senza fontana di Trevi; non c’è la Basilica di San Pietro, non c’è la Colonna Traiana e nemmeno l’Ara Pacis. L’epoca degli imperatori deve ancora arrivare, ma presto Augusto prenderà il potere, per poi venir seguito da Claudio, Adriano, Nerone, e tutti quegli importanti signori che da secoli riempiono i libri di storia con i loro nomi, le loro gesta e le loro stramberie. La repubblica è in declino, già Cesare ha iniziato a smantellarne la struttura. In un mondo in crisi, alla ricerca di una nuova stabilità, nasce e vive Gaio Valerio Catullo. Ora vi chiedo uno sforzo di fantasia: toglietevi dalla testa l’immagine dell’anziano e altezzoso imperatore romano, o dell’impettito senatore con la veste bianca e la fascia rossa; abbandonate lo stereotipo del gladiatore o del vincitore dei giochi con la corona di alloro sulla testa e pensate, invece, a Riccardo Zanotti, il frontman dei “Pinguini Tattici Nucleari”. Fidatevi: pensate a lui immerso nell’antica Roma. Ecco il nostro Catullo.
Catullo, in realtà, non è romano doc. È un provinciale, nato nei pressi di Verona, a Sirmione, nell’ 84 a.C circa da una famiglia agiata che aveva contatti con gli esponenti dell’alta nobiltà romana. A vent’anni, il nostro Catullo si trasferisce a Roma, dove conosce uomini influenti che lo accolgono nella vita della capitale di quello che di lì a poco si sarebbe chiamato impero. Entra a far parte di un circolo letterario, un gruppo di amici che si riunisce per parlare e fare poesia ed è qui che Catullo comincia a scrivere. Anzi, probabilmente qualcosina lo aveva composto anche prima, ma giunto a Roma inizia proprio a prenderci gusto, stimolato dal contesto in cui vive. La sua opera è giunta a noi sotto il titolo di “Carmina” (cioè “canti, poesie”) o “Liber” (libro). Nella prima poesia della raccolta, scrive: “Quoi dono lepidum novum libellum/ Arida modo pumice expolitum?” “A chi dono questo nuovo, grazioso libretto/ levigato giusto adesso con la secca pomice?” Varie e controverse sono le ipotesi di come e da chi siano state scelte, raccolte e ordinate le poesie di Catullo, probabile è che dei 116 componimenti che oggi possiamo leggere alcuni facessero parte di quel “Libellum” di cui ci parla Catullo stesso, che però, per varie ragioni, non può coincidere con l’intera opera che oggi abbiamo tra le mani.
Toglietevi dalla testa l’idea di libro a cui siamo abituati a pensare noi. Quando vive Catullo per “libro” si intende ancora il rotolo di papiro arrotolato che, per essere rifinito e pronto a circolare nel mercato librario, veniva levigato con la pomice sui bordi superiori e inferiori. Ora: è possibile che 116 poesie fossero contenute tutte all’interno di un unico rotolo? No, davvero difficile, anche perché una decina di queste sono molto lunghe. E quindi Catullo di che libretto ci sta parlando, se a noi è giunto un Libro abbastanza consistente? Proseguendo nella lettura della prima poesia, scopriamo che la raccolta è dedicata a un certo Cornelio, amico e poeta, che per primo aveva apprezzato i componimenti di Catullo. Il nostro poeta lo ringrazia per il supporto dimostratigli fin da subito e gli regala “questo po’ di libricino, per quanto possa valere” (quiquid hoc libelli/ qualecumque). Catullo non si gonfia di orgoglio, è invece consapevole che il suo è il lavoro di un giovane (ricordiamoci che ha poco più di 20 anni!), per quanto sia un lavoro attento, accurato, pensato; dice a Cornelio che le sue sono “nugae”, cioè sciocchezzuole, cosette da nulla. (“namque tu solebas/ meas esse aliquid putare nugas”; tu eri solito dare alle mie cosette da nulla un qualche valore).
È bene, adesso, sapere che l’opera di Catullo viene generalmente suddivisa in tre parti: l’ultima è formata da epigrammi, quella centrale da “carmina docta”, mentre i primi componimenti sono detti “nugae”. Ed è probabile che prendendo in mano proprio le prime 60 poesie stiamo leggendo quella raccolta che Catullo aveva chiamato “Libellum”. Perché è qui che ci racconta cose semplici, così quotidiane che chiunque vi ci si può ritrovare: parla dell’animale domestico della sua ragazza; ci racconta soprattutto del suo amore felice e poi infelice per lei, dei suoi dubbi e delle sue gioie di giovane innamorato; delle sue antipatie nei confronti di Furio e di Aurelio, ma anche dell’amicizia con Licinio; scrive dei suoi viaggi, della sua amata città, Sirmione. Insomma: leggetene alcune, poi ditemi se non possono essere state composte ieri. Catullo ha scritto quelle che chiama “sciocchezze” e sperava che il suo “Libellum” durasse almeno una generazione, poi chissà. Invece ha attraversato i secoli ed è giunto fino a noi. Forse, con queste sue poesie, ci vuole dire che per parlare d’amore, così come per tutte le cose della nostra vita, bastano parole semplici, a patto che siano vere.
Allora mi viene in mente un altro ragazzo, di nemmeno 20 anni, all’epoca, che ha scritto delle “nugae” che adesso spopolano. Lui si chiama Riccardo Zanotti, voce dei “Pinguini”, e adesso vi chiedo di immaginarvelo come Catullo. Un ragazzo che scrive poesie, ma in musica, e che della musica vuole fare la sua vita. E la vita lo porta a Londra, al colloquio per entrare in un’importante scuola di canto: deve portare un suo pezzo e sceglie di presentarsi con “Bagatelle”. Inserita nel primo album della band “Il re è nudo”, è una canzone che parla essenzialmente d’amore, ma senza usare paroloni o frasi fatte. Lo racconta in modo semplice, quotidiano; rievoca immagini che tutti conosciamo bene: la porta che scricchiola, il motore che si ingolfa, l’ombrello dimenticato alla stazione del tram, la speranza e la libertà di due innamorati, lo stupore di un ragazzo davanti alla primavera che sembra abitare negli occhi dell’amata. Insomma, parla di sciocchezzuole, di “nugae”. E cos’altro vuol dire “bagatelle” se non questo?
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