Partorì sul molo di Lampedusa: storia di Ekram accolta da una famiglia siciliana

Parla la giovane somala: "Ora il futuro è mio figlio". Maria, l'insegnante che l'ha ospitata insieme il suo bambino: “Per me un'esperienza bellissima da ripetere. Peccato che vieni trattato dalle istituzioni con uno stato di sufficienza incredibile”.

Partorì sul molo di Lampedusa: storia di Ekram accolta da una famiglia siciliana

 

“Il futuro è mio figlio”. Con queste parole la giovane somala Ekram con un inglese stentato e spiegato anche a gesti, fa capire quanto è importante per lei essere rimasta con il suo bambino, il piccolo Dair che è nato sul molo di Lampedusa dopo lo sbarco nella notte tra il 24 e il 25 settembre scorso. Ad accogliere la ragazza con un calore tutto siciliano é stata, dal 4 ottobre, Maria una docente di una scuola media di Palermo. “Ekram con il suo bambino è arrivata a casa mia che aveva bisogno di tutto – racconta Maria -. Grazie all’appello su facebook in pochissimo tempo tra amici e parenti si è innescato il meccanismo virtuoso della solidarietà e siamo riusciti subito a rispondere ai suoi primi bisogni”. Il marito della ragazza, in questo momento si trova in Svezia ed Ekram vorrebbe riuscire, non appena si completerà l’iter burocratico per il riconoscimento del diritto di asilo, a raggiungerlo presto per riunire la famiglia secondo quanto prevede il regolamento di Dublino.

 

 

“Se non ci riuscirà - spiega Maria, che l’ha accolta a casa sua insieme a sua figlia, due cani e due gatti – è comunque risoluta e già felice di avere avuto questo bambino e soprattutto di potere avere la possibilità di crescerlo in Europa, un luogo lontano da fame e da guerra”. “Siamo riusciti a farla parlare con la sua famiglia – racconta - da cui ha appreso il luogo dove presumibilmente dovrebbe trovarsi il marito. La nostra città però non è ancora attrezzata soprattutto a livello di mediatori linguistici. Alla ragazza, infatti, al momento della sua registrazione in questura, mancando un mediatore linguistico somalo, erano stati sbagliati tutti i dati anagrafici. La questura ha poi rifiutato di ammettere gli errori e correggerli tanto che la situazione dovrà probabilmente essere seguita da un avvocato”. Per la giovane, adesso, è stata già trovata un’altra sistemazione in una sede Sprar, una casa famiglia dove potrà stare secondo le leggi italiane il tempo necessario ad avere il riconoscimento dell’asilo politico.

 

 

La storia. Ekram giovane somala musulmana di 25 anni è arrivata a Lampedusa la notte tra il 24 e il 25 settembre scorso con un barcone di fortuna, partorendo il suo bambino sul molo dell’Isola. La giovane, originaria di un piccolo villaggio fatto di case di paglia e fango in mezzo al deserto della Somalia, essendo la più grande di 10 figli, dopo quattro anni di tentativi, è riuscita finalmente ad arrivare in Italia. Nel suo Paese, oltre alla povertà, ha conosciuto presto la violenza delle frange più estreme dei guerriglieri somali. Spiegandola con una gestualità molto forte e significativa Ekram vuole dimenticare alcune cose che ha visto nel suo Paese e, in particolare, proprio l’immagine dei fondamentalisti islamici, dei loro fucili e della grande paura fatta di tanti silenzi in cui parlare può costare la vita.

 

 

Prima di imbarcarsi per Lampedusa la giovane è stata in Libia un anno di cui 8 mesi in un carcere nel deserto, trascorrendo la sua gravidanza seduta su una panca di legno. Soltanto nel momento in cui è riuscita, tramite suoi parenti ad avere 800 dollari, cifra ritenuta scontata rispetto ai mille che vengono normalmente richiesti, è potuta partire per l’Italia con il marito. Nel barcone, ammassata insieme a tutti gli altri migranti, è stata quattro giorni e quattro notti, in balia del mare mosso senza cibo soltanto bevendo acqua.

 

 

“Per me accoglierla insieme al bambino è stata un’esperienza meravigliosa che voglio ripetere. Spero che Ekram nella sua nuova destinazione venga seguita e accompagnata nel migliore dei modi – dice con un filo di speranza misto a commozione Maria – perché mi rendo conto che rischiano di essere esposti a tutto senza avere una rete di protezione vera. Avevo chiesto, essendo insegnante e non potendo prendere giorni liberi, la possibilità di accompagnarla nella sua nuova residenza nei giorni di sabato e domenica. Purtroppo mi è stato negato dicendomi, senza mezze parole, che la partenza andava addirittura anticipata se la ragazza non voleva perdere il posto”.

 

 

“Nella mia esperienza di accoglienza constato amaramente che noi volontari per le istituzioni siamo solo uno strumento – dice -. Vieni chiamato perché fai comodo ma poi vieni trattato dalle istituzioni di turno con uno stato di sufficienza incredibile che ti stupisce. Spero che mi consentiranno in seguito di andarla almeno a trovare perché hanno tutto il diritto di potere ricevere delle visite”. “Le istituzioni non si rendono conto, ancora pienamente, quante potenzialità può avere l’accoglienza fatta dalle famiglie che andrebbe regolamentata e valorizzata ancora di più. Ci vorrebbero anche dei percorsi di formazione all’accoglienza operata da mediatori linguistici che in città sono ancora pochi. Accogliere un migrante vuol dire sforzarsi di sostenere, accompagnare la persona in tutto rispettando e, soprattutto non invadendo, la sua cultura. Per potere fare tutto questo credo che le famiglie andrebbero aiutate”.

 

 

Non è la prima volta che la docente, che in passato è stata volontaria al centro Santa Chiara, ospita per un periodo breve donne migranti provenienti da Lampedusa. Lo scorso anno, infatti, aveva ospitato anche una giovane eritrea che poi è andata via. “Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che hanno già un progetto ben definito – aggiunge - e sanno dove devono andare per costruire il loro futuro. Purtroppo, però, vengono bloccate dalle leggi e dalla burocrazia italiana che in questo senso non le aiuta per nulla”.

 

 

 

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