PASTORALE GMG DA “CAMPO ESTIVO”

Il viaggio verso la GMG non è una sorta di promozione turistica da “agenzia”, ma tocca gli atteggiamenti tipici di preparazione di un “campo estivo”. Mi pare che sia necessario un fondamentale salto di qualità: passare dal vedere la GMG come un viaggio (e quindi dal comportarsi come “agenzia turistica”) al considerare la Giornata come un'esperienza educativa ordinaria (tipo “campo estivo”)...

PASTORALE GMG DA “CAMPO ESTIVO”

da Teologo Borèl

del 10 luglio 2005

 Il viaggio verso la GMG non è una sorta di promozione turistica da “agenzia”, ma tocca gli atteggiamenti tipici di preparazione di un “campo estivo”. Si pensi alla “selezione” dei partecipanti, alla progettazione in funzione del “dopo GMG” e al protagonismo attivo dei giovani. Si tratta di risvegliare la “passione” missionaria di tutta la comunità cristiana per offrire loro una rinnovata presenza di chiesa. Nuove prospettive di “santità” laicale.

 

Appare chiaro che la radice dei problemi pastorali collegati alla GMG non dev’essere individuata nei limiti della Giornata. Sicuramente essa non ne è priva; alcuni di essi hanno un’incidenza non trascurabile nel condizionare la gestione positiva dell’evento (la stessa periodicità triennale viene da molti avvertita come una difficoltà non da poco), ma non sembra lecito ricondurre a tali problematiche la difficoltà di collocare la GMG nel contesto della pastorale giovanile.

Mi pare invece che sia necessario un fondamentale salto di qualità: passare dal vedere la GMG come un viaggio (e quindi dal comportarsi come “agenzia turistica”) al considerare la Giornata come un’esperienza educativa ordinaria (tipo “campo estivo”). Non credo di esagerare: molte volte ho sentito responsabili diocesani lamentarsi che la GMG li ha costretti a un lavoro da “agenti turistici”. 

 

 

Non essere ridotti ad “agenti turistici”

 

Un’agenzia turistica si preoccupa della qualità della sua proposta, ma non le interessa troppo sapere chi e perché uno vi partecipi; quando si prepara un campo, si parte invece da lì, dai ragazzi che verranno e dai loro bisogni; invece

– all’agenzia turistica interessa che non ci siano posti vuoti sull’autobus o in albergo, indipendentemente da chi li va a occupare; nel campo si cerca l’alloggio secondo l’entità del gruppo, e ogni posto vuoto “pesa” soprattutto da un punto di vista educativo: è un’assenza, non una perdita economica;

– un’agenzia turistica non si preoccupa di cosa i suoi clienti hanno fatto fino al giorno prima di salire sull’aereo, né di cosa faranno una volta tornati a casa; ogni campo invece è punto di arrivo di un anno di cammino e “lancio” di quello successivo;

– un’agenzia turistica progetta le sue proposte offrendo un diversivo dal quotidiano, e per questo ricerca luoghi, contenuti ed esperienze quanto più lontane e diverse dalla vita di tutti i giorni; il campo si progetta con finalità diametralmente opposte, per cui anche le esperienze “diverse” sono pensate in funzione della quotidianità (pensiamo, ad esempio, alle scalate in montagna: ne parliamo sempre riferendoci a qualche atteggiamento prezioso per l’esistenza di ogni giorno);

– un’agenzia turistica, infine, sa che, concluso il rapporto, non vedrà il proprio cliente fino alla prossima estate: deve sparare tutte le cartucce disponibili in pochi giorni, se vuole in qualche modo fidelizzarlo; deve giocare al ribasso sui prezzi e limitare al minimo i disagi, se desidera lavorare ancora con quella persona. Il campo è un momento di una relazione, nel quale alzare il tiro delle esigenze e abbassare il livello del confort, per dare spazio al rapporto interpersonale, che proprio dalle distrazioni e dai rumori viene spesso condannato alla banalità.

Una pastorale giovanile potrebbe dunque trovarsi all’altezza della GMG abbandonando gli atteggiamenti e le procedure da “agenzia” e assumendo quelli del “campo estivo”. Provo a concretizzare:

 

La “selezione” dei partecipanti. Finora il modello prevalente è quello dell’agenzia: si pubblica il programma e si attendono adesioni; una volta completato il numero dei partecipanti, si fa qualche iniziativa di formazione, e poi si parte. Il “modello campo” suggerirebbe – a livello diocesano – un approccio diverso. Partire dal domandarsi: “A chi proporre la GMG? Quali sono i giovani per i quali questa esperienza potrebbe essere adatta e fruttuosa?”. Questo approccio non dovrebbe essere unico ed esclusivo: la GMG non può essere chiusa a una sola tipologia di giovani; un’attenzione progettuale alla tipologia dei partecipanti sarebbe importante per delineare un cammino di preparazione mirato e per proiettarsi sul “dopo”.

 

La progettazione dell’esperienza. La GMG, in realtà, assomiglia a un supermercato. Nella sua crescente complessità offre una grande varietà di possibilità e una sempre maggiore libertà di scelta. Come in un supermarket, l’esperto andrà diritto agli scaffali preferiti (con il rischio di non approfittare di qualche offerta), mentre l’inesperto inizia ordinatamente dalla frutta e verdura (con il rischio di impiegare troppo tempo). Qualcuno si fermerà più del dovuto, mentre altri metteranno fretta a tutti.

Fuori di metafora, è evidente che una pastorale giovanile all’altezza della GMG deve porsi il problema della selezione delle proposte: cosa scegliere, perché e per chi? Sappiamo tutti che poi i ragazzi fanno quello che vogliono, ma una proposta di fruizione motivata e interessante, in genere, riesce a condizionare. Proporre ad un gruppo composto di animatori di dividersi in gruppetti per monitorare diverse esperienze, sulle quali poi ci si confronterà, aiuta sicuramente a fruire la GMG in modo potenzialmente più fruttuoso. Strutturare i gemellaggi privilegiando località ed esperienze adatte ai propri giovani è certamente di aiuto nel dopo-GMG. Prevedere forme di fruizione che valorizzino un’interazione significativa e ragionata tra i partecipanti può evitare l’individualismo (ad esempio, chiedere alle coppie di fidanzati di vivere esperienze comuni e proporre poi un momento di confronto; oppure, inviare tutti i giovani lavoratori a qualche iniziativa adatta a loro, per poi discorrerne insieme).

Questa impostazione va chiaramente enunciata nel “contratto formativo” iniziale, perché le persone che vengono sappiano a cosa vanno incontro. Esattamente come ad un camposcuola.

 

La proiezione sul “dopo”. Sia che si tratti di una categoria omogenea, sia che si tratti di un gruppo formatosi per l’occasione, le basi per il “dopo” vanno messe prima, anche in questo caso per orientare la fruizione dell’esperienza, nella duplice dimensione della coerenza cristiana negli ambienti e della missionarietà. La GMG è una grande esperienza di convivenza: un’impostazione progettuale può consentire di valorizzare al massimo e di collocare nella prospettiva del ritorno le sensazioni positive che i giovani ricavano da elementi quali la condivisione, l’essenzialità, la gratuità, il servizio... Anche il contatto con stili di vita diversi, nel paese ospitante e tramite i racconti dei giovani di altre nazioni, può divenire, in questa prospettiva, elemento significativo. Purché si “metta a tema” la questione della vita cristiana evangelica e si cerchino insieme, nel contesto della Giornata, idee, elementi e strumenti perché ciascuno possa chiarirne i termini e individuare percorsi praticabili. Legare ad un’esperienza entusiasmante la proposta di una vita più coerente, nelle scelte di ogni giorno, con le esigenze del vangelo, può aiutare ad uscire dal moralismo, per collocare l’etica nella prospettiva delle beatitudini.

La GMG, inoltre, è una grande esperienza di comunicazione del vangelo: a livello mediatico come interpersonale, nelle città di gemellaggio come in quella dell’incontro, a misura del singolo come del gruppo. La cosa avviene per lo più spontaneamente, favorita da un clima di grande simpatia e accoglienza verso i giovani pellegrini. Se, ad esempio, si percepisce l’importanza della visibilità gioiosa e simpatica di un gruppo di giovani (e adulti) come base per la proposta del vangelo, ci si porrà il problema di riprodurre tale elemento anche negli ambienti quotidiani. Anche a questo proposito, la “messa a tema” di tale aspetto dell’esperienza appare essenziale.

 

Un protagonismo attivo. Sembra un’espressione pleonastica. Non lo è: si riferisce alla sempre crescente possibilità che la GMG offre di proporre iniziative organizzate in proprio. I gemellaggi, i vari “incontragiovani” (o youth festival o festival de la jeunesse), le occasioni di incontro con le comunità ospitanti, sono altrettanti spazi in cui pensare proposte da gestire in prima persona. Una preparazione che si ponga già nell’ottica della missionarietà, meglio se collocata in contesti e situazioni comparabili con quelle di casa, può inoltre preludere a un dopo-GMG più motivato e soprattutto ricco di strumenti.

 

L’apertura a orizzonti nuovi. Le Giornate sono spesso fenomeni “spiazzanti”: ciò suggerisce un atteggiamento programmatico di ricerca e di apertura. La partecipazione alla GMG può diventare efficace per il “dopo” se già si parte con l’intenzione di carpire idee da mettere a frutto una volta rientrati alla base. Un’azione di motivazione dei partecipanti in tal senso, insieme alla proposta di una fruizione “mirata” dell’evento, può produrre frutti rilevanti. Un gruppo organizzato con precisi compiti di osservazione, vivrà la giornata con uno specifico orientamento alla sua valorizzazione del “dopo”, che non potrà mancare di efficacia.

Questo procedimento richiede alcune condizioni di base, come la possibilità di conoscere con ragionevole anticipo i programmi dettagliati della GMG in relazione al proprio gruppo, la possibilità di interagire con l’organizzazione a livello periferico (gemellaggi) e centrale, la disponibilità di sufficienti risorse umane, economiche e di tempo, la disponibilità dei partecipanti a lasciarsi coinvolgere in progetti (dopo-GMG) che potrebbero apportare rilevanti variazioni al proprio modo di vivere nella comunità cristiana e nella propria quotidianità.

È comunque difficile immaginare che la GMG possa sviluppare tutte le sue potenzialità a vantaggio della pastorale giovanile. È un peccato che un’iniziativa che assorbe una grande mole di attenzioni e di risorse debba essere percepita come un intralcio all’attività ordinaria e non come una grande risorsa, capace di dare novità di motivazioni, di stimoli e di strumenti.

 

 

Pastorale giovanile del “dopo” GMG

Come la «pastorale giovanile ordinaria» può recepire le positività della GMG? Tre piste di “carattere generale”:

 

Risvegliare la passione apostolica di tutta la comunità cristiana. Una prima pista è il coinvolgimento dell’intera comunità cristiana: la Giornata canadese ha catalizzato, forse più di quella romana, attorno ai giovani l’attenzione della chiesa di provenienza, delle comunità locali del paese ospitante (nei gemellaggi), di parrocchie, famiglie, associazioni e istituzioni in Toronto. I giovani intervistati hanno sentito fortemente il coinvolgimento delle parrocchie, l’attenzione del papa e la vicinanza delle altre figure di chiesa. Hanno potuto fare l’esperienza di essere quella “priorità pastorale” che troppe volte, purtroppo, rimane enunciazione di principio.

Quando la pastorale giovanile diventa priorità reale della comunità cristiana, quando gli adulti (famiglie, preti, vescovi…) stanno con impegno vicino ai giovani e danno loro fiducia, essi rispondono con entusiasmo. Si tratta di camminare su questa strada in ogni diocesi e parrocchia, superando mentalità di delega e superficialità, per rendere protagoniste le nuove generazioni. Spesso le cadute di tensione e gli abbandoni del ritorno sono originati dal trovare chiuse in casa propria quelle porte che altrove si erano viste spalancate.

 

“Parleranno lingue nuove”. Una seconda pista è relativa alla molteplicità di linguaggi che la GMG utilizza per parlare al cuore dei giovani. Toronto ha proseguito nello sviluppo di questa “multimedialità”: si pensi alla via crucis televisiva, alla rilevanza di Internet e della televisione; si pensi, infine, alla proposta di diverse forme di incontro interpersonale (questa edizione si è caratterizzata per la novità del servizio ai poveri)… La ricchezza di forme comunicative si adatta alla varietà dei partecipanti, e offre a ciascuno la possibilità di incontrare al proprio livello la proposta cristiana. Alla GMG nessuno si sente escluso.

Nella società complessa c’è bisogno di imparare a comunicare su diversi canali e mediante vari linguaggi, abilitandosi a un loro uso consapevolmente orientato all’evangelizzazione. Non è più rimandabile l’acquisizione di competenze comunicative. 

 

Una pastorale giovanile esigente. Un’ultima pista riguarda l’esigenza di presentare un cristianesimo dai grandi orizzonti e di misura alta, a partire dalla fiducia nei confronti dei giovani. Alle GMG il papa non si stanca di chiamare i giovani a grandi responsabilità, mentre dichiara loro tutta la sua stima. Non è difficile comprendere quanto tutto questo sia in consonanza con il cuore dei giovani, troppo spesso appiattiti su progetti di bassa caratura, per quella sorta di “mancanza di ossigeno” che è uno degli esiti della crisi delle ideologie. Non è difficile, però, intuire il rischio di fermarsi a enunciazioni di principio o ad esaltazioni momentanee, se non si compie la fatica di indicare percorsi praticabili e quotidiani, che mettano insieme gradualità ed efficacia. In questo senso, il «pensare globalmente e agire localmente» è una logica obbligata, mutatis mutandis, sia per quello che riguarda il cammino di santità, che in relazione alle grandi tematiche sociali, culturali ed economiche. 

 

 

Percorso pastorale verso Colonia

 

1. Dare fiducia ai giovani e aiutare i giovani a darsi fiducia. Una pastorale giovanile che apra il cuore dei giovani a credere in quello che desiderano e in quello che sperano è oggi quanto mai necessaria. Sono i giovani la risorsa principale di ogni proposta e di ogni cammino. Se perdiamo la fiducia nel cuore dei giovani rischiamo di tradirli e di tradire la grandezza della loro vocazione. Questo ci chiama a una duplice attenzione.

 

• Al di là di ogni peccato e miseria, invitare a scoprire la grandezza dei propri desideri e delle proprie speranze. È possibile che un giovane confonda l'amore con il sentimento e faccia scelte sbagliate; tuttavia è importante aiutarlo a riconoscere che il desiderio di amore che esse manifestano è assolutamente buono, e che alcune dinamiche del suo comportamento sbagliato indicano la via giusta. È possibile che un giovane affidi alla forza delle proprie emozioni il riconoscimento dell'autenticità di un’esperienza, tuttavia è importante non guardare con sospetto ciò che può essere segno di una vera mozione interiore dello Spirito. È una specie di via adfirmationis, che si basa sulla fiducia in ciò che Dio ha seminato nel cuore dei giovani e che mira a che ogni giovane creda nella bontà dei propri desideri di gioia e nelle proprie speranze. Ciò chiede una comunità cristiana accogliente e “simpatica” verso i giovani.

 

• La seconda attenzione mira invece a sostenere il discernimento: in un contesto di relativismo, non è sempre facile comprendere ciò che davvero rende felici e ciò che invece costituisce una rinuncia e un compromesso con i propri ideali. Occorre essere realisti: nel cuore dei giovani, accanto ai nobili sentimenti ispirati da Dio, convivono condizionamenti, tentazioni, illusioni... Accanto ai momenti di esaltazione ci sono le fasi di stanca, in cui quello che ieri sembrava sacrosanto oggi può essere anche messo in dubbio. C'è bisogno di una specie di via negationis: demolire gli inganni del peccato, smascherare i surrogati di felicità, per additare il “di più” della verità. Non sfuggirà che questo esercizio richiede oggi grande competenza, grande pazienza e grande capacità pedagogica. Ciò è tanto più facile quanto più si offrono ai giovani contesti comunitari in cui fare esperienza positiva di ciò.

 

2. Indicare le vie esigenti di una santità integrale. La santità è la conformazione a Cristo, come sviluppo della vocazione battesimale: siamo «santi per vocazione». Nel linguaggio comune spesso “santità” e “normalità” sono concetti contrapposti, quasi che la santità sia fenomeno eccezionale e riservato a pochissimi. Oggi le due cose devono tornare a coincidere. Essere «cristiani normali», nell’accezione popolare del termine, infatti, non è più sufficiente:

* non regge l’urto della secolarizzazione e del pluralismo, per insufficienza di ragioni e di motivazioni;

* non basta più neppure ai giovani, che desiderano qualcosa che abbia un senso, e non l’ennesimo compromesso.

Attenzione però a non imboccare scorciatoie spiritualiste: parliamo di una santità integrale, che abbraccia tutte le dimensioni della vita. Forse siamo ancora prigionieri di visioni un po’ “seminaristiche” della formazione; abbiamo invece bisogno di ricercare percorsi capaci di suscitare una santità giovanile laicale. 

 

3. Abilitare ad esser costruttori della civiltà dell'amore. Spesso siamo tentati di liquidare quest'ultima questione con l'affermazione: «Facciamo i cristiani, cresciamo i santi, poi ciascuno saprà testimoniare il vangelo nel luogo in cui vive». Che è evidentemente falsa per una serie di motivi:

– innanzitutto, perché si rifà alla famigerata logica “prima-dopo”, in virtù della quale troppi percorsi formativi al 'dopo' non arrivano mai;

– in secondo luogo, perché misconosce una grande evidenza, che il vangelo non ha immediatamente tutte le risposte a tutte le situazioni; è necessario che ogni cristiano ricerchi, con fatica e con l'aiuto del magistero, le vie mediante le quali il vangelo possa essere vissuto e annunciato nel proprio ambiente di vita. Dà per scontato che un tirocinio 'generico' alla vita evangelica sia sufficiente per permettere a chicchessia di vivere da cristiano nella vita quotidiana. Si assiste così al paradosso per cui un giovane che ha percorso anni di un cammino di fede senza mai sentire parlare di scuola, di lavoro, di politica... dovrebbe essere capace di interessarsi e di guardare in prospettiva cristiana tutte queste cose;

– in terzo luogo, perché liquida la questione cruciale della presenza e dell'impegno cristiano nel mondo relegandola a problema individuale, mentre si tratta di una questione che riguarda la comunità. Il problema non è solo quello della coerenza individuale, ma dell'azione della chiesa per orientare in senso cristiano tutta la realtà. Anche perché, se ci si limita a questo, le questioni 'grandi' rimangono fatalmente fuori dalla portata dell'interesse e dell'azione delle persone.

Educare dei 'costruttori' chiede che tutti i percorsi educativi contengano precise attenzioni alla dimensione 'politica' della fede. Non è più il tempo delle dissociazioni! Chiede inoltre che in tutti gli ambienti di vita si ripensi una diversa presenza di chiesa. 

 

 

Rinnovata presenza di chiesa

 

Dove finiscono, al lunedì mattina, tutti i giovani che domenica sono andati a messa? Dove sparisce quel 7 o 8% di giovani che fa parte di gruppi, associazioni, movimenti? I cristiani della 'comunità eucaristica' sono sicuramente una minoranza in molti ambienti di vita; una minoranza peraltro invisibile, assai ben mimetizzata e silenziosa. Il 'silenzio degli onesti', che spaventava M.L. King più del chiasso dei malvagi, è fenomeno preoccupante anche se trasferito sul piano della testimonianza cristiana.

Credo sia necessario pensare una nuova presenza di chiesa negli ambienti di vita dei giovani, a partire da una diversa visibilità e coscienza di chiesa dei giovani medesimi. È necessario, ma non sufficiente, educare a 'uscire allo scoperto'; c'è bisogno di una seria progettualità di chiesa, per aiutare i giovani a individuare spazi di protagonismo e di azione comuni. Ciò vale per i 'classici' ambienti della scuola, del lavoro, dell'università... ma anche per le nuove frontiere del tempo libero, della globalizzazione, del territorio... Sarebbe davvero importante mettere dinanzi ad ogni giovane la possibilità di essere protagonista di cambiamento, di umanizzazione, negli ambienti concreti in cui egli vive ogni giorno, e anche di fronte alle grandi questioni del nostro tempo: la pace, lo sviluppo, la giustizia...

In quest’ottica, il richiamo alla missionarietà va compreso come qualcosa che scaturisce dall’amore alla vita. Non si tratta di fare proselitismo, ma di testimoniare la bellezza del dono ricevuto, facendolo riconoscere come capace di conferire pienezza ad ogni dimensione dell’esistenza umana, di riportare vita là dove esistono solitudine, disperazione e morte.

Alessandro Amapani

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